L’indagine evidenzia, attraverso anche i dati degli investimenti media, come la pubblicità italiana restituisca un’immagine della figura della donna falsata, sbilanciata verso stereotipi sessuali
La pubblicità restituisce un’immagine della figura della donna falsata, che mette spesso in risalto gli stereotipi più abusati sulla figura femminile.
E’ quanto è emerso da un indagine condotta dal presidente dell’Art’sDirectors Club Italiano (clicca qui per scaricarla) Massimo Guastini, con la collaborazione di Università Alma Mater di Bologna e Nielsen Italia, presentata ieri alla Camera.
“Gli spot italiani ci raccontano che le donne sono sessualmente molto più disponibili degli uomini”, sottolineano gli autori della ricerca. Tradotto in percentuali, le donne sessualmente disponibili sono il 12,9%, gli uomini l’1,7%. “Questo dato significa che se osserviamo 100 campagne con donne protagoniste (o co-protogoniste), 12,9 le rappresentano sessualmente disponibili”.
Le aziende e le agenzie pubblicitarie puntano ancora su spot sessisti e gli investimenti lo provano: quasi 66 milioni di euro per narrare, attraverso la pubblicità, un tipo di donna essenzialmente seduttiva, in barba alla proposta del Parlamento Europeo che, nel settembre 2008, approvava con 504 voti favorevoli l’abolizione della pubblicità sessista e degradante per le donne.
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In particolare, riferiscono gli autori dell’indagine, nel dicembre 2013 alcune aziende hanno speso 33.567.194 euro in campagne pubblicitarie che rappresentavano come modello di riferimento maschile l’uomo ‘professionista’, l’uomo che si realizza attraverso le sue competenze e la sua determinazione.
Nello stesso mese alcune aziende hanno speso 33.162.902 euro per veicolare come modello di riferimento femminile le ‘donne decorative’, sessualmente ‘disponibili’, ‘ragazze interrotte’, o donne ‘manichini’ e ‘preorgasmiche’. Donne esemplari per quanto concerne la ‘fisicità’, non per competenze specifiche.
“È dunque tutta qua la condizione femminile nell’Italia del 2014? Eppure -rilevano gli autori della ricerca- da oltre 20 anni le donne italiane si laureano più degli uomini. Si laureano in meno tempo. E si laureano pure meglio: il 67% dei voti di laurea superiori a 106 sono presi da donne. Saper utilizzare il cervello non esclude ovviamente l’aver cura di sé e del proprio aspetto. Ma si resta comunque sorpresi da una narrazione pubblicitaria della donna così tendenzialmente monocorde. Stereotipata. Si resta sorpresi anche perché lo scopo primario di marketing e pubblicità è caratterizzare la marca, renderla unica e riconoscibile”.
“Le donne ‘disponibili sessualmente’ sono per la pubblicità italiana, 22 volte più frequenti degli uomini con lo stesso tipo di disposizione. E ancora: le donne ‘disponibili sessualmente’ e le ‘preorgasmiche’ sono complessivamente 42 volte più frequenti delle donne sportive”.
A questo punto chi ha condotto la ricerca (Massimo Guastini in collaborazione con Giovanna Cosenza dell’Università Alma Mater di Bologna e Nielsen Italia) si è domandato: otteniamo un dato analogo nella narrazione dell’uomo italiano? la risposta è ‘no’.
Il maschio che pratica sport è sette volte più frequente di quello disponibile a un rapporto sessuale. E la sproporzione tra questi (e altri) numeri dà sicuramente luogo a una rappresentazione non paritaria dei generi. Se parliamo, ad esempio, del lavoro svolto da uomini e donne nelle pubblicità si rileva che il tasso di occupazione maschile narrato in spot nel dicembre 2013 è pari al 66.11%. Ovvero, è lievemente più alto di quello dell’Istat (64.7%, ad agosto 2014). E il tasso di occupazione femminile? 14.33%. Decisamente più basso di quello reale (46.5%).. Da questo quadro si deduce che la rappresentazione delle donna nella pubblicità è stata lo scorso anno (ma anche quelli precedenti) “scorretta”.
“Non è stata veritiera, non rispecchia la società. E il potere della comunicazione” nel veicolare un messaggio distorto della donna “non va sottovalutato”, secondo gli autori. Ma come cambiare la situazione? “Occorre aumentare la consapevolezza sulle responsabilità sociali che ha chiunque abbia accesso ai mass media. Serve diffondere un’autentica cultura della comunicazione”, concludono gli autori della ricerca.