GroupM ha aggiornato la piattaforma Image per definire meglio confini e scopi dell’influencer marketing e sottolineare l’importanza di strategie più articolate, evitando le scorciatoie della disintermediazione
Un canale di comunicazione nuovo, ma che talvolta è stato usato come se fosse uno strumento vecchio, con una conoscenza ancora superficiale di dinamiche e meccanismi e uno sguardo troppo concentrato sul breve periodo.
Secondo GroupM Italy i segnali delle disfunzioni nell’influencer marketing erano già presenti, ben prima dei noti fatti di cronaca ora al vaglio della magistratura. Per questo la media investment company del network WPP ha rapidamente fatto un deep dive nei dati della ricerca che alimenta la piattaforma proprietaria Image, presentata nel corso dell’appuntamento Influencer Marketing 2023 di UPA.
“Quando è emerso il caso Ferragni-Balocco non ci siamo stupiti più di tanto, perché alcuni segnali c’erano già nel field di ricerca sull’influencer marketing condotto nell’autunno 2023”, ha spiegato a BrandNews Antonello D’Elia, Consulting Manager della unit Business, Intelligence & Insight di GroupM Italy. “Anche per questo abbiamo voluto spostare la lettura dell’influencer marketing – o meglio, della creator economy – dalla cronaca alla strategia”.
Dall’istinto alla strategia. Tra le tante domande a cui l’aggiornamento della ricerca ha cercato di rispondere è se i casi di cronaca siano solo un incidente di percorso o non rappresentino invece un rischio intrinseco dell’influencer marketing; che cosa si possa imparare; e cosa consigliare ai clienti, per quanto una parte degli investimenti in influencer marketing spesso non rientra nel budget media, ma passa dalle pubbliche relazioni, se non addirittura da scelte interne dell’azienda.
Un fenomeno emergente, che sfugge alle definizioni tradizionali, e che GroupM invita a non confinare semplicemente nell’influencer marketing, ampliandone la portata a una creator economy che permetterebbe di utilizzare questa leva di comunicazione in modo nuovo e non semplicemente replicando le più vecchie meccaniche del testimonial.
Ecco cosa ha fatto scattare questo diverso livello di lettura.
Branding o performance? Andando al di là del sentiment di cronaca, il deep dive nella ricerca – che GroupM ha condiviso con tutte le sue agenzie media – ha permesso di ribadire l’approccio che le agenzie del gruppo stanno seguendo con i propri clienti sui confini e sui ruoli di questa leva di marketing.
Uno dei risultati più interessanti è la risposta alla domanda se l’obiettivo dei brand quando ingaggiano gli influencer sia più vendere o fare branding.
“L’influencer dà il meglio di sé sul middle funnel, perché getta un ponte tra i media di branding (come la TV) e quelli di performance (come l’ecommerce). Per questo è riduttivo usarlo solo come una celebrity”, aggiunge D’Elia spiegando che c’è tutto un mondo sotto la superficie più luccicante “che è destinato a crescere e ad affermarsi per le sue peculiarità ma anche perché ha una sua consistente base numerica”.
Il riferimento è ai macro e micro influencer, che i consumatori prediligono sempre più alle celebrity.
Le preferenze dei follower si stanno spostando, infatti, dai modelli irraggiungibili dei pochi personaggi sovraesposti ad altri protagonisti in cui rispecchiarsi, figure più semplici, capaci di far scoprire nuove cose e che mantengono la promessa di autenticità. Trattandoli, insomma più come attivatori che come semplici vettori di visibilità.
Consumatori consapevoli. L’aggiornamento della ricerca sottolinea gli elementi del ‘patto commerciale’ tra marca e consumatori che hanno bisogno di una revisione. “È importante evidenziare di più e in maniera più chiara i contenuti sponsorizzati, lavorare sull’autenticità, perché i consumatori sono ben consapevoli e sanno riconoscere il potere negoziale del creator”, spiega D’Elia.
Le collaborazioni andrebbero inserite in strategie più articolate, possibilmente senza quelle scorciatoie della disintermediazione, che talvolta comportano rischi anche in termini di brand safety, ma soprattutto includendo la leva dell’influencer marketing in un’architettura sostenuta da altri media.
“Le partnership di lunga durata funzionano meglio delle attività one shot”, aggiunge Andrea Franzoni, Consumer Insight Manager della Business Intelligence & Insight, perché “permettono di inserire la marca in un racconto che diventa branded content” e fa leva su una sincerità in grado di mettere in luce anche i punti deboli della marca, se necessario.
Secondo la ricerca aggiornata, infatti, la richiesta di autenticità da parte dei consumatori presenta il gap più forte tra gli attributi attuali e le caratteristiche su cui si dovrebbe lavorare per rinnovare il patto commerciale.
Alimentare l’algoritmo. C’è infine un altro tema della nascente creator economy messo in luce da D’Elia. Una delle prossime frontiere dell’Influencer marketing sarà fare un passo in avanti nella comprensione degli effetti che gli algoritmi determinano negli ambienti delle diverse piattaforme, sia dal punto di vista della diffusione dei contenuti sia da quello dei comportamenti degli utenti.
“Detto in una battuta, dovremo riaggiornare una tesi sui media, storica ma ancora valida, che ci aiuterà a vedere sempre più chiaramente che se ieri era il medium a essere il messaggio oggi il messaggio è diventato la piattaforma”, sottolinea D’Elia. E che gli influencer sono stati un driver fondamentale verso questo cambiamento.
A.C.