Wavemaker sul palco di IF Italians Festival ha affrontato il tema del social entertainment mettendo in evidenza come i brand possono entrarci nel modo corretto
Non si fa in tempo ad ambientarsi su Snapchat o Instagram che milioni di giovani, già di loro difficili da raggiungere, si spostano su un altro social quale TikTok. Che però a pensarci un secondo non è mica così nuovo: lo usano 1 miliardo di utenti e già da qualche anno pianifica importanti campagne di brand nelle capitali globali. E’ tra noi da anni, da quando si chiamava Musical.ly, semplicemente sono le le aziende a essersene accorte solo di recente.
Partendo proprio da TikTok, Wavemaker sul palco di IF Italians Festival ha affrontato il tema del social entertainment mettendo in evidenza come i brand possono entrarci nel modo corretto. Insieme a Julian Prat, Chief Strategy Officer di Wavemaker, Antonio Severino, Head of Content dell’agenzia media, Umberto Giolito, Director Marketing Strategy Sky Italia, è intervenuto Luca Porta detto Tel J, creator che su TikTok ha 600mila follower.
Di estrazione ballerino hip hop, Tel J ha iniziato 3 anni fa a postare video su Musical.ly. «E’ iniziato come un gioco, facevo video per intrattenere i nipoti e Musical.ly mi sembrava il social più adatto per esprimermi al meglio. Non c’è un ingrediente segreto, il successo dipende da tante cose, ma penso che paghi soprattutto la costanza. Come si fa ad essere rilevanti per la nostra generazione? I brand devono capire bene qual è la chiave di lettura specifica di ciascun social, lasciando spazio ai creator di esprimersi secondo le loro possibilità».
Dal punto di vista creativo, secondo Tel J conta la capacità di “trasformare qualcosa di ordinario, banale, in straordinario, stravolgendolo”. Basti pensare al fenomeno virale di cui, in questi giorni, è protagonista involontaria Giorgia Meloni.
In un contesto in cui il fruitore può essere anche creatore e le agenzie non hanno più il monopolio della creatività, le agenzie hanno il compito di aiutare i brand ad ampliare il loro territorio creativo. Antonio Severino ammette che non è un percorso facile “perché non abbiamo il controllo sul risultato. Il nostro lavoro è di selezionare i creator, scegliendo chi sa maneggiare il contenuto al meglio. Bisogna capire il perimetro in cui possiamo lavorare sereni. Dal canto loro i brand devono trovare la loro audience e usare ogni canale a seconda dell’obiettivo. Ad esempio, su Facebook o Instagram la soglia di rumore è altissima. La domanda che dovremmo fare al cliente è “Perché Facebook?” e convincerlo a scegliere non il canale che ha più utenti ma quello su cui sarà più rilevante. Noi dobbiamo offrire gli strumenti per diventare rilevanti e creare le condizioni affinché le persone riescano a diventare creatori di contenuti”. Per non essere percepito come corpo estraneo, il brand si deve adattare alle meccaniche specifiche di ciascun social: su TikTok, che si basa sulle challenge, il brand non può essere protagonista ma può creare una propria challenge. Wavemaker l’ha fatto con Huawei.
Nel social entertainment bisogna lasciarsi alle spalle i concetti ‘old style’ di big idea, fissa e immutabile, e di piano editoriale. Il paio editoriale obbliga a postare a scadenze fisse: “Dire una cosa in meno non cambia nulla, dirne una rilevante e degna di nota si. Ci vuole coraggio, è una strada più complicata perché poi i contenuti rilevanti li creare veramente». La big idea sui social è un limite: “Cambia il modello di generazione delle idee. Con la velocità di oggi, legarsi alla cosiddetta ‘big idea’ come se fosse l’unica ancora è un rischio. Bisogna invece interpretare la marca nella sua distintività ma cercando di essere rilevante nelle cose che dice. Netflix, ad esempio, ha creato un codice linguistico riconoscibile, anche senza parlare del brand». Infine per le agenzie è importante seguire i segnali, capire il mercato, interpretando il posizionamento del brand nel singolo momento della specifica attività.
In una media company come Sky è avvenuto una sorta di clash of culture, spiega Umberto Giolito. “Abbiamo dovuto abbandonare la sacralità della tv per inseguire l’engagement, cosa difficile in quanto non esattamente tangibile a livello monetario. Per convincere i vertici aziendali a dare il via libera, cerco di parlare un linguaggio a loro affine, traslando la semplicità della pubblicità anni ’90 nello spiegare perché abbiamo bisogno di questa modernità. Sono inoltre sensibili al tema della misurabilità».
Tra gli obiettivi per il 2020, Giolito sottolinea il bisogno di essere davvero rilevanti nella strategia media e creativa e la capacità di monetizzare l’engagement: “Dobbiamo trovare il nesso magico tra attività stimolanti ma difficilmente transazionali e portare il consumatore all’azione attraverso il contenuto, cosa che normalmente non è prevista in attività di questo tipo”.