L’istituzionalizzazione della raccolta di Saatchi & Saatchi non toglie il piacere della scoperta di nuovi talenti video. Giovanni Pagano ha selezionato per BrandNews i corti più disturbanti
Proprio adesso. Adesso che sempre più consapevolmente Saatchi & Saatchi accetta l’onore e l’onere del ruolo, che tacitamente tutti le avevamo comunque riconosciuto, di gran pioniera e guida delle nuove generazioni di talenti video, istituendo una call for entries ufficiale al suo leggendario Showcase, stringendo accordi con Channel 4 e finanziando la produzione del corto di uno dei talenti scovati, proprio adesso dicevo, al suo trentatreesimo anno di vita, il New Creators’ (ex Director’s) Showcase ha iniziato a emozionarmi di meno.
Che volete, sono fatto così: la sua istituzionalizzazione, incluso l’equilibrato dibattito preliminare che fino a oggi c’era stato risparmiato, ha finito col togliere adrenalina alla mezz’oretta residua di filmati, e sa cosa intendo chi come me una decina d’anni fa era stato guidato disciplinatamente alla sua poltroncina da legioni di stratosferiche infermiere e aveva obbedientemente accettato, e indossato al polso, futuristici emozionometri.
Video musicali in cerca di effetto. Metteteci anche che il rap mi annoia mortalmente, e che invece proprio il rap costituisce evidentemente una delle fonti principali di nuove scoperte creative, liturgicamente impegnate a ribadirne la ritmicità sonora con analoghe ritmicità visuali, di immagini e montaggio: ben 3 su 10 sono video musicali che non sono in grado di apprezzare.
O meglio, che riesco ad apprezzare solo quando il contenuto del video ha una sua struttura narrativa che non si limita a exploit visuali contingenti: ammetto che ‘Bullet man’ di Aus Taylor mi ha molto divertito. Infatti, mentre accompagna il nuovo singolo del duo Alt-Rap, racconta di questo nonnino bianco guerrafondaio che, non riconoscendo l’amato nipote diventato nero per motivi insondati, gli spara cacciandolo dalla sua roulotte; ebbene, la soggettiva del proiettile che lo insegue svoltando gli angoli dietro di lui e superando qualsiasi ostacolo è esilarante.
E non c’è solo l’implacabile finale a cambiare registro, ma soprattutto l’evidente e provocatoria critica sociale di un’America dove razzismo e sparatorie vivono al momento un autentico rinascimento.
Sarcasmo bizzarro. Altrettanto bizzarro è il corto ‘The gospel according to Gail’ della giovanissima e già premiatissima Florence Winter Hill, maestra dell’humour anche se non esattamente britannico: Gail è l’insegnante della scuola-guida Fabulous, ma con la giovane Mia espande il suo ruolo a una consulenza totale, alternando premurosi consigli a dure reprimende, distraendo la ragazza fino all’imprevisto finale, che non ho però amato dato che amo i gatti.
Ancora più bizzarro e atrocemente sarcastico ‘What’s my name?’ di Arthur Studholme: Jack si sta godendo la vita a una festa ingollando noccioline e circondato da ragazze, quando incontra un vecchio compagno di scuola di cui non ricorda il nome. Costui se ne accorge e lo crocifigge beffardo chiedendogli ossessivamente come si chiama (spoiler: Stanley); Jack cerca di blandirlo prendendolo per le braccia, ma più lo scuote più il volto dell’altro subisce un’orrenda trasfigurazione, riempendosi di pustole e ferite. Quando arriva l’ambulanza carica il persecutore ormai morente, ma divertitissimo dall’imbarazzo in cui ha precipitato il povero Jack: con un ultimo sforzo gli confessa di essere allergico alle noccioline.
Detta così può sembrare poco più di una barzelletta un tantino folle, ma casting, interpretazione e sorpresa finale sono di livello assoluto.
Corti disturbanti. E sì, ci sono anche un paio di corti forti e disturbanti come ai bei tempi. Parlo di ‘Only child’ di Ibrahim Muhammad, studente della Film BA Honours all’Università di Westminster, che persegue lo specifico progetto di sostenere la nuova generazione di registi neri. Quando le muore la mamma in ospedale, Anna deve affrontare un perfetto estraneo e decidere se c’è spazio nella sua vita per lui: il padre.
Ma parlo soprattutto di ‘The boy who couldn’t feel pain’ di Eugen Merher, una buia storia on the road in cui balugina un raggio di luce: Chester è un ragazzone nero che ha perso i genitori e la capacità di soffrire, il che lo rende un gran fighter di strada. Per quante ne possa prendere non accusa mai il colpo, e alla fine la spunta sempre, lasciando a terra qualsiasi avversario: insomma una garanzia di guadagni per il suo amico Nelson, che lo gestisce e sfrutta. Ma ecco Annie, una biondina filiforme che arriva in paese e si ostina a perseguirne il lato buono, fino a sfidarlo fisicamente, fino a subirne l’enorme forza, fino a ferirlo infine donandogli la capacità di tornare a soffrire.
E se questa storia non vi commuove non so che farci. Io continuerò ad aspettare gli Showcase della Saatchi & Saatchi sperando di vedere cose così.
Qui sono disponibili tutti i film.