Nella seconda giornata dello IAB Forum EY presenta la ricerca realizzata insieme all’associazione che amplia notevolmente il perimetro del valore del mercato digitale. Per le aziende il problema resta però ancora quello della formazione e del reclutamento di personale preparato
Il mercato della pubblicità digitale arriverà a fine anno a sfiorare quota 3 miliardi di euro, ma l’industria del digitale è molto, molto di più. Secondo la ricerca congiunta EY, IAB Italia “Le infinite possibilità del digitale in Italia”, presentata ieri allo IAB Forum, il valore del digitale a perimetro ristretto, considerando cioè solo gli investimenti in attività del tutto digitali, ammonta a 65 miliardi di euro, +11,6% rispetto all’anno scorso e +22% se paragonato al 2016.
La pubblicità online e l’e-commerce si confermano – per il secondo anno – i comparti che più di tutti guidano la crescita dell’intera industria con incrementi rispettivamente del 13% e 15% rispetto al 2017, anche se i pesi sul valore complessivo si attestano intorno al 4% e 44%.
“La crescita del digitale ha effetti positivi anche sull’occupazione con 285mila professionisti nel 2017 rispetto ai 253mila dell’anno precedente – commenta Carlo Noseda, Presidente di IAB Italia – Si tratta di persone impiegate a tempo pieno in ambiti come il digital marketing e la comunicazione interattiva, la tecnologia che permette di erogare servizi online, ma anche e-commerce, online advertising e sviluppo di app. Il valore dell’industria digitale porta con sé rinnovamento e trasformazione in tantissimi altri settori adiacenti, stimolando la produttività in aziende non necessariamente votate all’innovazione. La politica economica del Governo può e deve svolgere un ruolo più determinante e di sostegno alla digitalizzazione, per una maggiore competitività a livello di sistema, un aspetto su cui l’Italia ha ancora un gap importante rispetto al resto dell’Europa e che va colmato per uno sviluppo dell’economia a lungo termine”.
PERIMETRO ALLARGATO
Se al perimetro ristretto aggiungiamo inoltre una stima del valore dei beni e servizi acquistati da consumatori attraverso canali fisici di distribuzione, ma che generati grazie alla comunicazione digitale si arriva a un indotto di oltre 89 miliardi di euro e con una stima sull’occupazione di più di 675mila persone, con professionalità anche non digitali ma che con il loro lavoro partecipano allo sviluppo del digitale.
C’è però ancora un mismatch tra domanda e offerta di professionalità. Andrea Paliani, Managing Partner Mercati e Clienti per la regione Mediterranea di EY, commenta “Il 70% delle aziende del campione ha attivato iniziative concrete per l’integrazione culturale e organizzativa di nuovi professionisti più digitali. Il 30% ha avviato piani di sviluppo interno delle competenze. Il 71% ha implementato azioni di integrazione delle generazioni più digitali al fine di accelerare la trasmissione di competenze tecnologiche e know-how digitale all’interno dell’organizzazione; il 27% ha avviato programmi di re-skilling delle risorse. Sono stati fatti passi in avanti ma occorre ancora investire molto per superare il divario culturale digitale”.
Le competenze più richieste ma da sviluppare sono data reasoning (57%), digital data management (34%), ux design (29%), creazione di contenuti (28%), pensiero computazionale (11%), social media management (10%); tra le professionalità richieste ma carenti di formazione universitaria ci sono quelle di data scientist (82%), digital strategist (57%), ux designer (54%).
SUPERARE IL DIGITAL DIVIDE CULTURALE
La tavola rotonda che ha visto confrontarsi WPP, GE, Cisco e Open Fiber ha messo in luce un gap ancora piuttosto profondo che l’Italia sta ancora scontando.
Elisabetta Ripa, AD di Open Fiber, commenta “In Italia dobbiamo capire come cambiare il sistema educativo, farci un bagno di realismo su quello che è importante per questo paese. Come azienda stiamo assumendo tanti giovani ma bisogna cambiare i processi. Non possiamo pensare di essere un’azienda disruptive operando con vecchi modelli: per lavorare in modo agile bisogna essere in grado di aggregare dall’esterno tante competenze diverse, mentre l’azienda deve dotarsi di profili che sappiano orchestrarle”.
L’esperienza di GE spiega bene l’evoluzione del percorso dell’azienda per portare il digitale all’interno delle macchine, delle fabbriche e al servizio del cliente.
La racconta Sandro De Poli, Ceo di General Electrics, che “fino a poco tempo fa era considerata una ‘big iron company’, tutta hardware e poco software. Cinque anni fa è iniziata la creazione di una piattaforma digitale industriale che sta portando riscontri importantissimi. Il punto è che non abbiamo abbastanza risorse, cerchiamo profili mai esistiti prima d’ora. Fino all’anno scorso non c’era un corso di ingegneria che trattasse la stampa 3D dei metalli. Non è accettabile perché così chi cerca lavoro non è esposto ai trend emergenti e l’azienda fatica a trovare personale e rimpiazzare chi esce”.
Stesso problema per GroupM che cerca figure laureate in discipline tech e matematiche. «L’Italia è all’ultimo posto per i laureati in discipline STEM, molto al di sotto della media europea del 20% – dice Massimo Beduschi, Chairman & CEO, GroupM e COO, WPP -. Il gap deve essere colmato, altrimenti faremo fatica a offrire ai clienti prodotti come la ricerca sulla popolazione digitale presentata ieri. Sul fronte diversity siamo più avanti con un 70% di dipendenti donne che però per lo più sono figure manageriali di basso livello. Il prossimo goal sarà aumentare la quota di donne con incarichi dirigenziali. In ultimo, oggi i millennial in azienda sono il 50%: l’obiettivo sarà acquisire talenti della generazione Z che vivono una realtà digitale completamente diversa dalla nostra».