We Are Social ha analizzato il fenomeno del brand urbanism, che dà concretezza all’impegno delle aziende all’interno delle comunità locali e buca l’indifferenza verso la pubblicità tradizionale
Dicesi brand urbanism la crasi tra i termini urban e brand activism per definire la collaborazione tra città e brand, nella quale il brand lancia iniziative permanenti e temporanee in cambio di visibilità per raccontare ai cittadini il proprio posizionamento, nel contesto di una collaborazione con le istituzioni. Coniato da JCDecaux, il brand urbanism è il tema intorno a cui si sviluppa l’incontro organizzato da We Are Social in occasione della Milano Digital Week con il contributo di Luca Martinazzoli, Direttore Generale Milano & Partners, Federico Rossetti, City Manager Milano Too Good To Go e Lara Gilmore, Presidente di Food For Soul.
La città infatti è un territorio interessante per i brand che, coinvolgendo le persone nel tessuto urbano e inventando nuovi servizi che facilitino la loro vita, riescono a bucare l’indifferenza che ormai viene riservata a molte forme di pubblicità tradizionale, effetto collaterale del sovraffollamento di messaggi online e offline, e guadagnare fiducia. «Dai brand ci si aspetta che giochino un ruolo importante nella società e gli stessi consumatori prediligono nei loro acquisti marche che condividono i loro valori – spiega Luca Della Dora, innovation director di We Are Social -. Non solo è richiesto loro di prendere posizione, ma di farlo anche su argomenti che fuoriescono dal loro core business».
Da questa convinzione sono nati case study di successo come ‘Paving for pizza’ di Domino’s, Red Bull ‘Give light to the night’ o gli ooh di Clear Channel che forniscono indicazioni utili agli homeless di Stoccolma.
«Ci sono tre livelli di brand urbanism: un’iniziativa temporanea che risolve una problematica verticale, ad esempio l’idea di Clear Channel; una collaborazione diretta con una o più città su un tema specifico, vedi il caso Domino’s; e uno più impegnativo in cui il brand dona alla cittadinanza in un progetto di lungo periodo, come è accaduto a Sydney con l’iniziativa di Volvo ‘Living sea wall’, con l’obiettivo di rendere le città luoghi migliori in cui vivere» dice Della Dora.
Il brand urbanism aiuta non solo le aziende a comunicare, ma porta valore anche alle stesse città che in questo modo possono arricchire anche il proprio di brand.
A spiegarlo è Luca Martinazzoli, che dopo aver lavorato nel marketing in Nike è oggi impegnato nella promozione della città di Milano. «La pandemia ha aumentato la rilevanza di valori come la qualità della vita, declinata negli ambiti di educazione, sanità e ambente. Intorno ad essi si stanno ridefinendo le gerarchie delle città più rilevanti». Milano, dopo Expo, si è rafforzata proprio in questo territorio e sta oggi accelerando nella costruzione di un brand attraente attraverso azioni di marketing rivolte a pubblici specifici.
Come i brand hanno bisogno delle città, anche le città hanno bisogno dei brand, aggiunge Martinazzoli. «E’ importante dialogare con le città, per capire quali siano i bisogni reali dei cittadini e non inventarsene di nuovi che non esistono. C’è uno spazio pazzesco per i brand. Le iniziative di arte pubblica sono forse quelle più facili, per arrivare a forme di decoro urbano in linea con il purpose dell’azienda. Poi c’è un secondo livello che consiste nel costruire servizi nuovi per la città, sia B2B che B2C. E infine un terzo più legato al purpose, oltre la semplice donazione, in cui il brand si impegna ad aiutare i cittadini direttamente con iniziative a favore di fasce fragili o, ad esempio, portando la banda larga nelle scuole o dotando i bambini di strumenti per la DAD».
Anche l’app-movimento Too Good To Go, dedicata alla riduzione dello spreco alimentare, si è rivelata utilissima ai negozianti delle città per gestire meglio l’imprevedibilità della domanda, in questi mesi di ‘zone colorate’. L’obiettivo per quest’anno è uscire dai centri città per raggiungere l’hinterland, espandersi al mondo dei mercati comunali e di strada e a quello delle grandi aziende. «Il 5 febbraio, giornata contro lo spreco alimentare, abbiamo lanciato il patto contro lo spreco coinvolgendo 18 aziende del mondo agro-alimentare tra le quali Peroni, Barilla, Danone Unilever – spiega Rossetti – per trovare modi nuovi per evitare gli sprechi anche in azienda».
L’esperienza dei Refettori dell’associazione no-profit Food for Soul, fondata dallo chef tristellato Massimo Bottura e dalla moglie Lara Gilmore, è un esempio calzante di collaborazione tra città, brand e ristoratori, che hanno messo a disposizione le loro mani e la loro creatività per trasformare cibo scartato in qualcosa di buono e ‘inspiring’.
Dopo il primo Refettorio Ambrosiano inaugurato durante Expo 2015, sono oggi 7 quelli aperti nel mondo, da Londra a Parigi, passando per Rio, Bologna, Napoli, Modena e altri in via di apertura in Messico, Canada e Usa. «Oggi il confine tra profit e non profit è più elastico e in quest’ultimo anno la distinzione è diventata ancora più liquida» conferma Gilmore.