Impietosa l’analisi dedicata alla comunicazione nei mesi dell’emergenza coronavirus nell’incontro organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia
Un flusso eccessivo e costante di informazioni, scarico delle responsabilità, uno sguardo alla scienza non dissimile dalla rappresentazione del pensiero magico che si applica alla tecnologia, un uso contorto e burocratico del linguaggio. L’approccio della comunicazione istituzionale e dell’informazione all’emergenza sanitaria sembra aver seguito la legge di Murphy: “se qualcosa può andare storto, lo farà”. Questa volta in ballo non c’era una fetta di pane imburrato, ma un’opinione pubblica spaventata e disorientata, incapace di sviluppare interpretazioni e progetti.
Di cosa sia andato storto nella comunicazione dell’emergenza si è occupato l’Ordine degli Psicologi della Lombardia in occasione di un dialogo a più voci che ha inaugurato la Casa della Psicologia, uno spazio fisico che mette connessione la cultura psicologica con il grande pubblico, nel corso di un webinar che ha proposto un’analisi critica di quanto è successo in questi mesi. L’analisi è stata impietosa, a cominciare dalla sintesi sarcastica di Gianmarco Bachi, giornalista e componente del collettivo Spinoza, per il quale i peggiori di tutti sono stati i giornalisti che hanno dato informazioni per accumulo, senza selezionare, “in un quadro comunicativo ipersaturo e privo di capacità prospettica”.
Paolo Moderato, psicologo e psicoterapeuta (IULM) ha sottolineato le “distorsioni cognitive del linguaggio, i tic verbali usati senza cognizione dell’implicazioni semantica”, riconducendo gran parte della comunicazione istituzionale a “uno scarico di responsabilità” sugli individui.
La pubblicità non poteva fare di più. Sul linguaggio ha messo l’accento anche Annamaria Testa, ricordando come la PA per prassi in Italia “si esprima in modo incomprensibile”.
“Parlare in modo semplice di cose complesse a persone che non hanno una cultura di base è estremamente complicato”, ha riconosciuto Testa, ricordando gli apprezzabili sforzi di pochissime testate giornalistiche. La giornalista che è stata grande copywriter ha salvato invece la pubblicità perché, ha detto, “c’era poco altro da fare, quando era impossibile girare con una troupe e l’unica soluzione era ricorrere ai grandi repertori di immagini”.
Ora le cose stanno leggermente cambiando, ha aggiunto, convinta che “ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma qualcosa cambierà nella pubblicità: sono convinta che anche in Italia le aziende metteranno una componente più etica e di responsabilità sociale nella loro comunicazione”.