Evolverà solo se le agenzie saranno capaci di presentarsi come partner a tutto tondo, aumentando la diversity e le competenze affiancando marketer che oggi agiscono come produttori di contenuti
Impossibile ignorare le parole di Bradley Jakeman, presidente di PepsiCo, pronunciate in occasione della conferenza annuale organizzata dalla Association of National Advertisers, l’associazione delle aziende statunitensi che investono in pubblicità, e parliamo di un valore aggregato di 250 miliardi di $ all’anno. Come riportato dalla stampa americana, il manager ha messo in evidenza come ormai il modello d’agenzia tradizionale sia in declino: il punto è che le agenzie pubblicitarie stanno perdendo rilevanza, e di conseguenza incarichi e soldi, a causa di un modello non più all’altezza delle necessità delle aziende.
“Se il modello d’agenzia non si piegherà, si spezzerà” ha detto Jakeman, dicendosi sconcertato da come le grandi holding non abbiano investito e acquistato produttori di contenuti, riferendosi a Maker Studios acquisita dalla Disney e con cui la stessa Pepsi ha realizzato branded content. E non è tutto: la critica investe anche la scarsa diversity – di genere, provenienza, abilità – che vige all’interno delle agenzie (“Innovation and disruption does not come from homogeneous groups of people”. Riguardo al valore della ‘diversity’, è chiarissimo l’articolo di Carlo Cavallone, ECD di 72andsunny Amsterdam pubblicato in esclusiva da Brand News), i modelli misurazione datati e i silos nonostante tutto inamovibili.
Il senso è chiaro e vale ad ogni latitudine: queste parole sono la ciliegina sulla torta di una serie macrofenomeni che ovunque guidano il sistema della pubblicità in questo momento, che non stentiamo a definire ‘catartico’.
Sempre da oltreoceano è arrivato a ottobre il mea culpa dello IAB (rimarrà storico quel ‘We messed up’) che ha invitato tutta la industry della pubblicità digitale a ripensare i fondamentali per bloccare la diffusione impetuosa dei software di adblocking: la user experience online è un disastro ed è colpa solo della industry se l’uso di tali software è cresciuto del 40% nel 2015 (in Italia secondo un recente studio di Adobe e Pagefair sarebbero 4,7 milioni i navigatori che bloccano la pubblicità, nel mondo quasi 200 milioni).
Un’altra faccia del fenomeno è l’aumento dell’interesse e degli investimenti in operazioni di branded content & entertainment (vedi questa ricerca di BCG riguardante anche l’Italia), sintomo di quanto le aziende valorizzino spazi che permettano di gestire i contenuti e coinvolgere con creatività fuori dai formati tradizionali. Sempre dallo stesso summit dell’Association of National Advertisers, Jeff Charney, CMO delle assicurazioni Progressive, ha detto che “oggi bisogna essere un full-service marketer” e che il suo ufficio marketing agisce come un network tv. Un settore interessante e pieno di opportunità che per sua natura frammenta ancora di più il mercato dei partner di comunicazione. Secondo la ricerca nella prossim pagine che Brand News ha realizzato insieme a Toluna, su un campione di aziende che investono oltre 100mila euro in comunicazione, le agenzie sono viste come partner preferenziali. Abbiamo voluto sondare l’opinione sul branded content perché a oggi è la leva di comunicazione che pare offrire più sfide e più stimoli alla creatività.
Non a caso Cannes Lions gli ha dedicato un festival-nel-festival ad hoc: al di là della nuova occasione di business, la scelta risponde alla difficoltà di giudicare e premiare in una sola categoria le espressioni di una comunicazione di brand più diversa ed espansa e, come avvenuto lo scorso anno per i Lions Innovation, rispecchia l’evoluzione di un settore sempre meno limitato al perimetro delle agenzie come sempre le si è intese.