A leggere uno degli ultimi numeri della Harvard Business Review la cui storia di copertina è dedicata proprio al Collaborative Overload, sembrerebbe che lo stile di leadership che va per la maggiore sia proprio quello collaborativo. Attenzione però: siamo sicuri che la collaborazione sia la panacea di tutti i mali in azienda? Che cosa accade se la collaborazione diventa una nuova procedura che si sostituisce a quelle vecchie? O peggio: se diventa un marasma tale per cui la direzione del traffico delle richieste di collaborazione — oltre naturalmente a riunioni, brainstorming,panel… — diventa essa stessa una professione?
La prima cosa, naturalmente, è mettere in questione come la collaborazione viene concretamente praticata nella propria azienda. Sarà però necessario guardar bene e in profondità, perché gli intrecci tra persone sono sempre imprevedibili. Nel bene, ma anche nel male. I fili, cioè, si possono intrecciare fino a diventare vere e proprie matasse inestricabili. La Harvard Business Review peraltro segnala alcuni limiti da “sovraccarico collaborativo” con una certa chiarezza: la richiesta di task collaborativi spesso distoglie i singoli da quelle mansioni per le quali dispongono di reali capacità individuali (magari anche riconosciute). E poi c’è la confusione. Le personalità collaborative e soprattutto capaci di coordinare e consigliare vengono sommerse di input diversi, complicati, intrecciati. Insomma gestire questo flusso diventa un lavoro (spesso disordinato) nel lavoro. Con ricadute rilevanti sulla produttività personale. Diventa quindi evidente che se qualcuno ha pensato che portare collaborazione e we- in azienda significhi replicare ciò che i vari sharing stanno facendo con taxi, bici, loft ed altro — ovvero la realizzazione di una specie di accesso collettivo ad un minimo comune multiplo — si starà ricredendo.
Tra l’altro l’overload collaborativo offre un comodo fianco alla scomparsa della scelta e delle decisioni che i manager devono prendere. Si delega cioè anche ciò che non deve essere delegato (sul tema della scelta dei manager e non solo, vedi anche il quaderno #9 di weconomy). E gli alibi si moltiplicano, portando con sé effetti negativi di ogni sorta. Ecco perché la vera sfida restano le risorse personali. Il loro riconoscimento, il loro risveglio e la loro espressione in azienda.
“In Logotel – spiega Cristina Favini, Strategist e Manager of design di Logotel – ci capita spesso, lavorando al fianco di aziende molto differenti tra di loro, di assistere e di gestire derive collaborative: una collaborazione non più produttiva, dispersiva e che ha perso la capacità di creare senso condiviso. Una collaborazione voluta solo sulla carta più per moda, ma non finalizzata a portarsi a casa output concreti, oppure non supportata da comportamenti coerenti del management. A volte queste derive, grazie a processi progettuali mirati, dosando e accompagnando le dinamiche di cooperazione interna, riescono a tradursi in risultati positivi. La nostra opinione è che comunque le dinamiche collaborative rimangano un valore aggiunto per le imprese, non “una moda”: la collaborazione va progettata a partire dalle persone e dagli incroci dei loro talenti, sempre in funzione degli obiettivi che l’impresa, il progetto, si pone. È un approccio al quale non possiamo più rinunciare per affrontare la complessità che ci richiede nuove risposte. Complessità che ci richiede l’integrazione continua tra culture, discipline e organizzazioni e per produrre nuove risposte a contesti dinamici e instabili”.