I valori di fondo non cambieranno, ma molte abitudini sì e alcune industrie dovranno fare i conti con nuove pratiche che stanno impattando in modo trasversale diverse generazioni. L’impatto del coronavirus su società, consumi e brand secondo Alberto Mattiello e Marco Bandini di Wunderman Thompson e Giuseppe Salinari di Wpp Italia
La parte pubblica degli insight di Wunderman Thompson è in pausa da qualche settimana, ma il team di planning strategico – ci dice Alberto Mattiello, Head of Future Thinking in WT – aggiorna costantemente il deck utilizzato per supportare i clienti dell’agenzia nell’interpretare il nuovo contesto.
“Si sta lavorando su due piani: il primo riguarda cosa sta succedendo oggi, quali benchmark analizzare e gli errori da evitare. È un momento delicato in cui ogni parola sbagliata può fare grandi danni ai brand”, dice Mattiello aggiungendo un commento di Marco Bandini, Head of Strategic Planning WT: “studi di casi precedenti insegnano che i marchi capaci di interpretare correttamente questi momenti rilanciando gli investimenti (soprattutto in marketing e R&D), riescono a reggere meglio la crisi e a far crescere le proprie market share fino a tre volte di più nei primi due anni di ripresa rispetto a chi si fa prendere dal panico e taglia i costi in modo indiscriminato”.
Il secondo piano di lavoro “è una visione a medio-lungo: come possono cambiare le abitudini di consumatori e aziende quando si tornerà alla nuova normalità? È chiaro che questa non è una parentesi auto-conclusiva: anche se non mi piacciono le metafore belliche, sappiamo che da ogni post-guerra sono nate grandi rivoluzioni sociali che hanno ispirato nuovi stili di vita e consumi. Perciò oggi dobbiamo costantemente chiederci che forma avrà la nuova società e, sulla base di questo, lavorare con i nostri clienti per disegnare una partenza adeguata alla nuova realtà. In questa logica uno degli strumenti è quello dei futuri possibili, e il ruolo di Future Thinking e non è mai stato così attuale. L’idea è quella di immaginare le estreme conseguenze di un fenomeno all’interno di un mercato e da lì ricavare diversi possibili scenari. Il punto di arrivo è avere sempre chiaro quale sia il futuro preferito in termini di probabilità e sulla base di questo rivedere costantemente le strategie sia di difesa che di investimenti”.
A che punto siamo con i valori? “Penso che i valori con cui siamo cresciuti siano radicati in modo profondo nel nostro modo di vedere le cose e nemmeno una pandemia li può cambiare. Ciò che viene messo in discussione sono alcuni stili di vita che, come nel post-11/9, da un lato vedranno nuovi comportamenti entrare forzatamente nelle nostre routine e dall’altro saranno contaminati da una contaminati da una reclusione forzata che sarà durata alcuni indelebili mesi. Facciamo un esempio: solo pochi mesi fa si ipotizzava che in futuro le case, soprattutto nei crescenti agglomerati urbani, non avrebbero più avuto le cucine visto che le abitudini di consumo si spostano sempre più sul mangiar fuori o ricevere delivery di prodotto ‘ready to eat’. Oggi vediamo sparire dai supermercati farina, lievito, prodotti per le preparazioni di base e mai come prima si rileva un rinnovato piacere di cucinare sotto forma di foto di torte, pizze, gnocchi, lasagne… Contemporaneamente, i supermercati hanno praticamente chiuso i reparti gastronomici soprattutto perché oggi la fiducia sui prodotti non a preparazione industriale è molto labile. Quindi, gente che fino a ieri non aveva forse mai acceso il forno oggi ha fatto la sua prima pizza o la prima lasagna e si sta godendo il piacere di cucinare e insegnare ai propri figli a farlo. Sono convinto che questo comportamento non sparirà assieme al virus e molte industrie dovranno fare i conti con nuove abitudini che stanno impattando in modo trasversale diverse generazioni. Capire oggi come le persone vorranno o saranno costrette a vivere nei prossimi anni nasconde le più grandi opportunità della ripartenza”.
Qual è il ruolo dei brand? Per Marco Bandini, nonostante l’accelerazione dell’epidemia a livello globale, “in termini di comunicazione è importante capire che non tutti i paesi stanno affrontando lo stesso impatto o attraversando la stessa fase. Capire le fasi dell’epidemia è importante per sintonizzarsi sulle mentalità dei consumatori. Noi ne abbiamo identificate 4: outbreak, abnormality, recovery, new normal. Differenti fasi determinano le diverse esigenze dei consumatori e le diverse attitudini del marchio. Comportamenti e modi di vivere sono profondamente influenzati da restrizioni e condizioni psicologiche: le famiglie devono connettersi con i loro cari in un modo diverso; il lavoro e la vita personale sono totalmente fusi; e, allo stesso tempo, il desiderio di diversione e di una vita normale spinge le persone a trovare nuove forme per socializzare, dagli aperitivi online ai giochi sul balcone e al canto collettivo. L’epidemia porta quindi l’etica in primo piano: il nemico comune ha generato una risposta comune, collettiva, reciprocamente favorevole. Marchi, aziende, istituzioni, operatori sanitari e persone in generale hanno riscoperto l’importanza e il potere dell’altruismo e di un modo di vivere più civico e significativo. I marchi hanno un ruolo importante in questo, soprattutto se si considera che è molto probabile e auspicabile, che questo atteggiamento si mantenga ben oltre il ritorno alla nuova normalità”.
Globalizzazione temperata. “Dal punto di vista produttivo le catene del valore molto lunghe hanno scoperto la loro fragilità. Il primi segnali dello tsunami si sono avuti con i problemi di fornitura cinese di prodotti, semilavorati e lavorazioni a inizio anno. Da quando la pandemia si è diffusa si stanno riscoprendo alcuni settori, nel tempo forse politicamente trascurati perdendo centralità, che oggi sono diventati strategici a livello nazionale. Questi nuovi equilibri costringeranno senza dubbio a rivedere molte delle strategie industriali sia in termini di politiche nazionali che per i brand stessi”, sottolinea Mattiello.
Per Giuseppe Salinari, COO di Wpp Italia, “più che un’anti-globalizzazione, potremmo andare incontro a una ‘globalizzazione temperata’, con nuove sacche di autonomia produttiva, almeno per i beni più necessari, in Europa, Cina, Usa. E potrebbe non essere un male. I nazionalismi da carrello, invece, si manifesteranno al massimo in una prima fase, ma poi sfumeranno: la globalizzazione ha pur sempre portato benessere a quasi 3 miliardi di persone, che non lo dimenticheranno”.