di Gilberto Cavagna di Gualdana e Sofia Kaufmann – Bipart studio legale
Gli avvocati Gilberto Cavagna di Gualdana e Sofia Kaufmann dello studio legale Bipart ricordano le norme che regolano la correttezza della pubblicità a livello legale. Tra questi, assiomi come il divieto di pubblicità ingannevole e di denigrazione e il rispetto dei diritti di terzi, ma anche aspetti borderline come quello dell’iperbole pubblicitaria
La pubblicità, intesa come “ogni comunicazione, anche istituzionale, diretta a promuovere la vendita di beni o servizi quali che siano i mezzi utilizzati” (così la definizione contenuta nelle Norme Preliminari del Codice di Autodisciplina), è soggetta ad una disciplina eterogenea, costituita da norme di diritto cogente – in primis il Codice del consumo, il Decreto sulla pubblicità ingannevole e i principi in tema di concorrenza leale tra imprenditori – quanto da regolamentazioni autonomamente assunte dagli operatori del mercato mediante la volontaria adozione di regole disciplinari, espressione di principi ispiratori dell’etica professionale e commerciale – come il codice di autodisciplina della comunicazione commerciale facente capo all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria – oltre che da norme specialistiche eventualmente applicabili per determinati settori ed attività.
Anche le istituzioni coinvolte nella valutazione della correttezza pubblicitaria sono diverse, dall’autorità giudiziaria, a cui è demandata la risoluzione delle controversie in tema civile e penale, a quella dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria che applica il proprio codice, all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a cui è stato demandato il compito di svolgere attività volte alla repressione della pubblicità ingannevole.
Tale impianto normativo si fonda su alcuni principi cardine, la cui applicazione si estrinseca in una disciplina trasversale che accoglie come assiomi il divieto di pubblicità ingannevole e di denigrazione e il rispetto dei diritti di terzi. Tali principi cardine sono:
– la lealtà della comunicazione commerciale, che deve essere onesta, veritiera e corretta, con l’ulteriore requisito che le affermazioni dell’inserzionista devono poter essere dimostrate;
– il divieto di discredito, la comunicazione deve evitare tutto ciò che possa screditarla come lo sfruttamento di temi socialmente rilevanti (ad es. dipendenze da droga o alcool, violenza sulle donne) o scioccanti (ad es. tematiche sessuali);
– l’obbligo di trasparenza e riconoscibilità della pubblicità, che deve essere riconoscibile come tale (anche in ipotesi di product placement, pubblicità redazione e influencer marketing, soggette anche a norme più specifiche per ciascuna fattispecie);
– il divieto di contenuti violenti, volgari e/o indecenti o che sfruttino la superstizione, la credulità e, salvo ragioni giustificate, la paura;
– il rispetto della dignità della persona e delle convinzioni civili e religiose.
Il divieto di pubblicità ingannevole è posto a presidio della libertà di determinazione delle scelte dei consumatori, posto che la pubblicità – promuovendo la vendita di prodotti o servizi – è uno strumento atto ad orientarne gli acquisti e/o a stimolarne bisogni e pertanto, se ingannevole, comprometterebbe una scelta avveduta e consapevole.
A tal fine l’ordinamento si attiva per assicurare la correttezza delle campagne pubblicitarie, dando rilevanza non all’intenzione dell’inserzionista, quanto all’idoneità della condotta ad indurre in errore il consumatore medio del settore di riferimento, errore che può riguardare la natura del prodotto/servizio o delle sue caratteristiche, la sua origine, il suo prezzo e le condizioni di vendita. Sotto questo ultimo aspetto, l’utilizzo di claim di gratuità ha suscitato sempre particolari criticità; in passato, ad esempio, il termine “gratis” è stato ritenuto incompatibile con la richiesta di corrispettivi (Giurì 85/2008) così come in un messaggio che utilizzava la gratuità dell’offerta tacendo altre componenti del prezzo
Posto che nulla vieta una presentazione del prodotto che – associandolo ad elementi estranei alle sue caratteristiche – lo renda allettante, la trasparenza richiesta nelle campagne pubblicitarie impone l’indicazione di tutte le informazioni la cui omissione potrebbe rendere il messaggio idoneo a trarre in inganno il consumatore medio, facendo attenzione ad utilizzare note e precisazioni solo per aggiungere informazioni integrative e non anche informazioni correttive o limitative (Giurì 69/2011, Giurì 56bis/2008; AGCM n. 23278 in Boll. 6/2012). La completezza e la veridicità di un messaggio promozionale è infatti da verificare nell’ambito del contesto della comunicazione commerciale stessa e non anche sulla base di informazioni ulteriori che l’operatore renda disponibili solo qualora sia già avvenuto l’effetto promozionale.
Nel giudizio di liceità rileveranno anche eventuali omissioni e ambiguità semantiche ed espressive, se incidono sulla verità del messaggio (Giuri 83/16, 80/01 e 10/06). L’attribuzione di insussistenti pregi e vantaggi ecologici ed ambientali (c.d. green claim), oggi sempre più ricorrente, è invece oggetto di censura qualora non sia “su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili” (art. 12 bis Codice IAP).
Si tollera e si considera tuttavia lecito l’uso di dichiarazioni esagerate, la c.d. “iperbole pubblicitaria”, palesemente esagerate e, in quanto tali riconoscibili, da chiunque; di cui dovrà tuttavia essere provata la veridicità; posto che non si ritiene di per sé ingannevole neppure l’uso di un linguaggio suggestivo, irrazionale e immaginifico (Giurì 1/07). Sono stati ad esempio in passato ritenuti leciti i claim “performance eccezionali” (Giurì 3/2013), “brillantezza irraggiungibile” (Giurì 20/2010), “testato dai migliori ladri professionisti” (Giurì 1/1995), “come in una favola” (AGCM n. 13320, in Boll. 26/2004).
La pubblicità comparativa è in linea di massima consentita, a patto che sia corretta, non tragga in inganno, non ingeneri il rischio di confusione, non comporti un indebito vantaggio dalla notorietà altrui o non presenti un comportamento denigratorio, che leda la dignità, l’immagine o la reputazione delle altre imprese, sia quando siano espressamente individuate sia quando siano comunque individuabili dal pubblico (e a prescindere da un rapporto di diretta concorrenza tra loro), e a patto che sia utile per illustrare sotto l’aspetto tecnico o economico, caratteristiche (che devono essere verificabili) e vantaggi dei beni e servizi oggetto della comunicazione commerciale, confrontarle obiettivamente con “caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili tecnicamente e rappresentative di beni e servizi concorrenti, che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi” (art. 15 Codice IAP).
Saranno tuttavia considerate ingannevoli tutte le comunicazioni commerciali comparative formulate in modo da occultare, dietro veridicità apparenti, gravi omissioni su caratteristiche essenziali. Sono state ad esempio ritenute denigratorie campagne pubblicitarie che ricorrevano a domande retoriche che inducevano il sospetto che i prodotti e servizi altrui fossero economicamente sconvenienti (Giurì 23/2011 e 53/2016), così come la caricatura della pubblicità altrui è stata ritenuta screditante nei confronti del prodotto oggetto di una precedente pubblicità (Giurì, 89/14); rimanendo comunque di norma consentito l’uso scherzoso, parodistico e paradossale del linguaggio.
È altresì fondamentale formulare campagne pubblicitarie che non ledano i diritti d’autore di terzi. Infatti, nel caso in cui si utilizzino opere dell’ingegno – ovvero opere che presentano carattere creativo tutelate in quanto tali dalla legge sul diritto d’autore – è necessario di norma il consenso dell’autore. La Legge Autore, infatti, riserva all’autore (e ai suoi eredi, sino a settant’anni dalla morte di quest’ultimo) lo sfruttamento economico dell’opera (i c.d. diritti di utilizzazione economica, indipendenti tra loro, e che possono essere trasferiti o concessi temporaneamente a terzi, per determinate finalità e/o utilizzi, singolarmente o congiuntamente) e il diritto di opporsi a qualsiasi utilizzo che possa essere di pregiudizio al suo onore e alla sua reputazione (i c.d. diritti morali, inalienabili, irrinunciabili ed imprescrittibili).
Nei casi in cui l’opera d’arte che si intende riprodurre rientri tra il novero dei beni culturali (ossia cose mobili o immobili e collezioni o serie di oggetti che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, tutelate dal codice dei beni culturali – indipendentemente che la proprietà sia pubblica o privata (sebbene a condizioni e con modalità diverse) – la riproduzione di tale opera potrà avvenire solo con il consenso dell’ente titolare e, se del caso, il pagamento di un corrispettivo (art. 107 e 108 Codice dei beni culturali). Queste previsioni sono riportate espressamente per i soli beni nella disponibilità del “Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali” senza che sia contemplata un’analoga possibilità per i beni di proprietà dei privati, sebbene un’interpretazione analogica della norma volta a ricomprendere nella tutela anche i beni privati sia stata in passato prospettata (senza tuttavia ricevere un espresso recepimento normativo). Negli ultimi anni gli enti pubblici hanno iniziato a ricorrere all’autorità giudiziaria per sanzionare alcuni casi, tra i più eclatanti, di riproduzione non autorizzata di beni culturali. Di recente il Tribunale di Firenze ha per esempio condannato un centro di formazione toscano per giovani scultori per aver riprodotto senza autorizzazione il David di Michelangelo nel proprio sito Internet (ord. del 14 aprile 2022 all’esito del procedimento di reclamo RG n. 1910/2022 proposto dal Ministero della Cultura, già Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo), evidenziando come “La natura stessa del bene culturale intrinsecamente esige la protezione della sua immagine, mediante la valutazione di compatibilità riservata all’Amministrazione, intesa come diritto alla sua riproduzione nonché come tutela della considerazione del bene da parte dei consociati oltre che della sua identità, intesa come memoria della comunità nazionale e del territorio, quale nozione identitaria collettiva: tale contenuto configura un diritto all’immagine del bene culturale in senso pieno” (così la pronuncia fiorentina). Altamente discusso – e discutibile – è se il nostro ordinamento preveda un più generale (e generico) diritto, spettante a chiunque, di riprodurre tali beni quando siano collocati in luoghi pubblici, in particolare con riferimento a monumenti ed opere dell’architettura contemporanea (il c.d. “diritto di panorama”).
Quanto all’utilizzo di marchi altrui – disciplinato in Italia dalle norme previste dal Codice della Proprietà Industriale e dal Regolamento 2015/2424 sul marchio europeo – la riproduzione di tali segni è di norma illecita (salvo come si è detto nei casi di pubblicità comparativa) quando avvenga “nel commercio” (e quindi in pubblicità), senza giusto motivo (e quindi senza consenso), e consenta di trarre “indebito vantaggio” (circostanza che si verifica quando l’uso del marchio altrui incida positivamente sulla percezione del pubblico sul prodotto/servizio pubblicizzato del terzo utilizzatore) o rechi pregiudizio alla percezione del marchio (c.d. annacquamento, svilimento). Potrà essere ritenuto scorretto un tale utilizzo quando (oltre ai casi in cui sia denigratorio) crei confusione o il convincimento che vi sussista un legame tra imprese, nuocia al valore del marchio e ne tragga vantaggio; mentre potrà essere ammesso un uso funzionale, ad esempio nei casi in cui il prodotto del concorrente costituisca un “elemento di costruzione (assieme ad altri) del processo narrativo”.
Infine, l’uso e la riproduzione dell’immagine di una persona altrui, a prescindere dal tipo di opera in cui sia contenuta, è tutelato dal codice civile (art. 10) e dalla Legge Autore (art. 96) che richiedono di norma il consenso della persona ritratta, salvo casi particolari in cui tale utilizzo non sia giustificato da particolari esimenti e sempre che l’esposizione e la messa in commercio del ritratto altrui non sia pregiudizievole per il decoro e la reputazione della persona interessata.