Amazon ritenuta responsabile dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea se terzi vendono sulla piattaforma Louboutin contraffatte. Un’analisi di Gilberto Cavagna e Anna Conzon di Bipart studio legale
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”) si è recentemente espressa a seguito del rinvio pregiudiziale presentato dai Tribunali di Lussemburgo e Bruxelles (cause riunite C 148/21 e C 184/21), dinanzi ai quali erano pendenti due procedimenti per contraffazione promossi da C. Louboutin, nei quali la nota casa di calzature di moda sosteneva che Amazon fosse riconosciuta responsabile della contraffazione del proprio marchio in quanto le scarpe con la famosa suola rossa venivano commercializzate sulla piattaforma di quest’ultima, ma da soggetti terzi e sebbene la Internet company non vendesse direttamente i prodotti contraffatti, ma provvedesse soltanto alla loro distribuzione, stoccaggio.
I Tribunali di Lussemburgo e Bruxelles avevano in particolare chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire in quali circostanze l’uso di un segno contraffatto nell’offerta di vendita di un terzo venditore possa essere attribuito al gestore di un sito di vendite online.
Sul punto la CGUE ha chiarito che il gestore di un mercato online che venda beni, propri e di terzi, nella propria piattaforma, può essere considerato l’utilizzatore di un segno identico al marchio di un altro soggetto (anche) qualora venditori terzi offrano in vendita sulla sua piattaforma prodotti recanti tale segno, senza il consenso del titolare, se un utente ragionevolmente informato e avveduto possa stabilire un collegamento tra i servizi di tale gestore e il segno distintivo.
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Nella valutazione assumono particolare rilevanza le modalità di inserzione effettivamente utilizzate dal gestore; così ad esempio, se il gestore del marketplace utilizza una modalità omogenea di presentazione delle offerte di vendita pubblicate sul proprio sito, perché consente la visualizzazione simultanea di annunci suoi e di venditori terzi, espone il proprio logo su tutti gli annunci e offre servizi aggiuntivi ai venditori terzi, tali circostanze possono rendere difficile per i consumatori distinguere l’origine di ciascun annuncio e la fonte dei prodotti contraffatti. In particolare, secondo la Corte con queste modalità “un utente siffatto potrebbe avere l’impressione che sia il gestore medesimo a commercializzare, in nome e per conto proprio, i prodotti recanti il suddetto segno”.
Per la CGUE il criterio interpretativo è chiaro; si può ritenere che il gestore di un sito di vendita online utilizzi esso stesso un marchio contraffatto quando i venditori terzi offrano in vendita prodotti recanti tale segno e l’utente stabilisca un nesso tra i servizi gestore e il segno in questione. I fattori che possono dimostrare un legame tra un gestore di marketplace e un marchio per la Corte possono essere: (i) l’utilizzo di un metodo uniforme di presentazione dei prodotti offerti sulla piattaforma che rende indistinguibile se un prodotto è stato venduto da una terza parte o dal gestore della piattaforma; (ii) la visualizzazione di annunci pubblicitari per i prodotti del gestore del mercato contemporaneamente a prodotti di terzi; (iii) l’esposizione del logo dell’operatore del mercato sugli annunci di vendita di prodotti di terzi; (iv) la fornitura di servizi aggiuntivi a un venditore terzo, come stoccaggio, spedizione e pubblicità.
La decisione è in controtendenza rispetto a precedenti pronunce relative alla responsabilità degli intermediari online per violazione del marchio, come nel caso Google France (C236/08- C- 239-08), L’Oreal (C-324/09) e un’altra riguardante i servizi di stoccaggio di Amazon, Coty Germany (C-567/18); in quei casi, i giudici avevano infatti ritenuto che non vi fosse alcuna responsabilità diretta da parte degli intermediari online per violazione del marchio in relazione a contenuti/prodotti offerti da terzi.
Ma non è la prima decisione di segno contrario. Nella causa tra Lifestyle Equities e Amazon, la Corte d’Appello inglese aveva infatti stabilito che gli annunci pubblicitari e la vendita di alcuni prodotti della marca statunitense a clienti del Regno Unito e dell’UE da parte di Amazon costituivano “uso” del marchio e Amazon era stata dichiarata responsabile della violazione dei marchi registrati di Lifestyle.
Vedremo se la recente decisione costituisce il primo passo di un orientamento definitivo.
Gilberto Cavagna e Anna Conzon, Bipart studio legale