Nella delicatezza del momento, con l’angoscia per la possibile apocalisse nucleare, diventa urgente la responsabilità nel disegnare una nuova comunicazione, attivando originali leve creative.
di Francesco Morace, Future Concept Lab
Molti hanno sostenuto per due anni che la pandemia fosse come una guerra. Adesso la vera guerra è arrivata e capiamo tutti che purtroppo è un’altra cosa. Tocca corde profonde del nostro sentire: dall’angoscia per la possibile apocalisse nucleare che è stata sepolta per decenni nel nostro inconscio collettivo, fino allo sconcerto per un’aggressione militare che soprattutto per gli europei non era più parte del ventaglio di ipotesi concepibili.
La profondità di questo trauma spiega alcune scelte che in pochi giorni sono state prese da alcuni popoli europei in direzioni impensabili solo dieci giorni fa: gli svizzeri si affrancano dal segreto bancario ed escono dal neutralismo, i tedeschi si riarmano, svedesi e finlandesi chiedono di entrare nella Nato. La paura che si manifesta è soprattutto concettuale, e riguarda la nostra vulnerabilità. Si tratta di affrontare fragilità personali, familiari, nazionali che vediamo affiorare negli occhi delle 240mila badanti ucraine che in Italia si prendono cura dei nostri anziani. Fragilità e paure che pensavamo aver definitivamente lasciato alle nostre spalle come doloroso ricordo delle generazioni precedenti. Si rafforza invece la necessità di affrontare responsabilità sociali e civili che erano scomparse dal nostro orizzonte esistenziale.
Accettare fragilità e incertezza per chi è cresciuto nell’era della prosperità è compito assai difficile, perché questa è una sensibilità che non è stata mai insegnata, né in famiglia né a scuola. La pace è una condizione che ci accoglie nella vita, se siamo fortunati. Noi europei viviamo il lusso di 70 anni di pace che ci ha portati a pensare che la pace fosse una scelta che dipende solo da noi. Purtroppo non è così: ci siamo risvegliati il 23 febbraio – a due anni esatti dall’esplosione della pandemia – con un nuovo incubo.
Una minaccia nucleare che incombe sul futuro e che non dipende solo da noi. E allora abbiamo finalmente preso atto che tanti bambini (non solo in Ucraina ma in tutto il mondo) ancora oggi nascono nel bel mezzo di una guerra e che la pace non è una scelta possibile se non la si difende, contro qualcuno che l’ha decisa. Per ciascuno di loro, la condizione esistenziale è stata decisa da altri, ed è la Guerra. Il sacrosanto pacifismo che manifesta in questi giorni convulsi nelle nostre piazze colorate, stracolme di giovani e meno giovani, ha il dovere di considerare questa opzione: difendere con le unghie e con i denti questa condizione di Pace, che non si difende da sé.
Ciò significa mobilitazione totale: diplomazia, solidarietà, accoglienza, compattezza europea, occidentale, mondiale. Isolamento di chi la guerra l’ha decisa e ingaggio dell’intero popolo russo che nel medio termine può sollevarsi e ribellarsi, come ha sempre fatto nella sua storia, anche se in ritardo e con indicibili sofferenze. Alla Guerra Totale si risponde con la Mobilitazione Totale per una resistenza civile che argini la Guerra di Potenza. Quando la guerra viene decisa contro di te, la Pace non è più una scelta, ma una condizione esistenziale da ripristinare a tutti i costi.
In questo quadro la comunicazione è un’opzione strategica e l’inclusione diventa un obbligo: non più una ricetta ideale fondata sulla tolleranza e il rispetto della diversità, ma una scelta che aiuta a comprendere, rassicurare, proteggere, rafforzare. Nella delicatezza del momento, diventa urgente la responsabilità nel disegnare una nuova comunicazione, attivando originali leve creative. Lo ha scritto in questi giorni Ian McEwan, con il suo smisurato talento, in un pezzo dal titolo L’Ucraina e noi, spettatori dell’abisso. Il coraggio di uscire dalla gabbia mentale che ci accerchia, definendo forme creative e originali di inclusione. Questo è il compito della comunicazione oggi, qualunque essa sia: istituzionale, aziendale, personale, nei canali social.
L’inclusione diventa il ricostituente in questa condizione di fragilità e la premessa per la costruzione di un mondo pacifico. L’inclusione deve funzionare – sul piano della motivazione – come compensazione per l’incertezza. Come è accaduto tra Ucraina, Europa e il mondo intero: una inclusione su cui le donne e gli uomini di buona volontà hanno scommesso dal primo giorno di guerra e che deve continuare a segnare la coscienza collettiva, finalmente riunita sotto un’unica bandiera di civiltà, come l’aveva sognata John Lennon in Imagine.