Per la prima volta, coinvolti anche gli associati UPA che si aggiungono agli associati dell’Osservatorio Branded Entertainment nella definizione della fotografia del settore

Il branded entertainment in Italia valeva 732 milioni di euro nel 2024, in crescita dell’8,5% sull’anno precedente, pari al 7% del totale investimenti misurato da Nielsen, ma potrebbe fare di più e meglio – sul piano economico – se il suo utilizzo diventasse finalmente strategico, con una ‘regia’ unica capace di aprire i silos in cui sono incanalate le tante competenze che lo compongono.
Questi, in sintesi, gli elementi principali dell’analisi Stato del mercato Branded Entertainment 2024/2025, presentata dall’Osservatorio Branded Entertainment e realizzata in partnership con RTI, in collaborazione con Ipsos Doxa e con il supporto di UPA, i cui associati sono stati coinvolti per la prima volta.
Altra novità di quest’anno, la ricerca viene anticipata rispetto al summit OBE, la cui data non è stata ancora fissata, una sorta di “trailer”, ha detto il neo presidente Emanuele Nenna nel corso della presentazione.
Unicum europeo e forse globale, OBE misura le dimensioni del settore come non fa alcun altro paese al mondo, ha sottolineato Erik Rollini, consigliere di OBE e managing director Essence Mediacom, anticipando per il 2025 una crescita del 7% sul 2024, per 783 milioni di euro che rafforzano una tendenza positiva, ancor di più considerando che per alcune marche questa leva raggiunge il 20% del media mix. Esiste solo una stima globale, fatta dal Branded Content Research Hub del London College of Communication che lo proietta a 402 miliardi di dollari nel 2025.
La distribuzione sui diversi mezzi premia ancora la TV (broadcaster, streamcaster e Pay) con il 36% delle risorse, seguita da piattaforme social e di intrattenimento con il 33%, editoria digitale (10%), le property della marca (7%) e l’out-of-home insieme con le attività sul territorio (5%).
Le dinamiche sui due canali principali sono divergenti: in TV viene privilegiata la brand integration (75% vs 25% delle produzioni originali), portando la marca dove già ci sono grandi audience, mentre in ambito social e digital il rapporto si inverte specularmente e le produzioni originali primeggiano.
Le ragioni del brand entertainment sono state indagate a fondo svelando alcuni gap da colmare, ha ricordato Anna Vitiello, direttore scientifico di OBE. “Il branded entertainment viene vissuto ancora troppo spesso come un elemento aggiuntivo, tattico a volte, non sempre integrato nella strategia di comunicazione”, ha rimarcato sottolineando che “il branded non rientra nell’approccio a breve termine” e che non tutto può essere tattico. Quanto all’efficacia di questa leva, il 39% delle aziende intervistate chiede più prove sull’efficacia del branded entertainment. “È un evidente gap di conoscenza, ha aggiunto Vitiello, gli strumenti ci sono” e, dice, non costano neppure tanto cari. Il problema, piuttosto, sembra sia il sapere prima per quali obiettivi si utilizzi questa modalità di comunicazione.
La brand awareness, cui si appella una gran parte dei rispondenti, sembra un obiettivo trito e ritrito, soprattutto per chi quella notorietà l’ha già; invece, andrebbe coltivata la ‘familiarità’, hanno spiegato Vitiello e Rollini, che con il branded entertainment cresce per tutti, anche per le marche già molto familiari al pubblico. “Il branded entertainment lavora su indicatori profondi, cercare solo la brand awareness è superficiale”, ha rimarcato Vitiello. Anche il brand trust è molto sottovalutato: solo il 14% dice di fare branded entertainment per far crescere la fiducia nella marca; eppure questa leva è efficace anche su KPI più complessi su cui la pubblicità classica lavora poco e sono molti gli obiettivi per cui si può costruire una strategia di branded entertainment.
Novità. Insieme al 58% per cui se ci fossero più risorse di budget allora investirebbe di più anche in branded entertainment, nella ricerca va a braccetto un 32% che investirebbe di più se ci fossero idee innovative. “Sfatiamo l’effetto ‘wow’, innovazione e sorpresa nascono da un approccio strategico, non da elementi tattici”, ha sferzato Vitiello, mettendo a nudo un altro nervo scoperto del branded entertainment nostrano, cioè il gran numero di soggetti coinvolti, raramente tutti insieme sulla strategia di contenuto, ma che anzi lavorano per silos, un po’ come fornitori. Ci vorrebbe una regia di tutta la filiera, ha aggiunto Vitiello, e dovrebbe essere in mano alla marca.
L’IA è sempre più utilizzata, stando alle risposte del campione, ma non può sostituire quella regia necessaria per costruire un progetto integrato, anche se – attenzione – per 1 azienda su 4 già oggi permette di far crescere la qualità del progetto, non solo la quantità delle sue declinazioni.
Prossimamente, oltre al Summit OBE, che si svolgerà entro fine anno, Nenna promette anche una sorta di ‘dizionario’ delle parole del branded entertainment, per disambiguare e arricchire il vocabolario di questa leva di marketing, e ancora più enfasi sulla misurazione, per arrivare a una sorta di currency condivisa. Probabilmente, è il termine entertainment che va stretto a questo settore in cui si stanno affermando declinazioni molteplici del creare una relazione più forte tra marca e persone, non solo e non necessariamente consumatori.
A.C.