Per un brand avere un purpose nobile non è più sufficiente, quello che conta è l’azione. È, in sintesi, il risultato dell’ultima ricerca dell’Osservatorio Civic Brands, il progetto editoriale e di ricerca di Ipsos e Paolo Iabichino che indaga l’impegno sociale di aziende e marche in Italia.
Un macro-trend amplificato dalla pandemia e di cui Francesca Petrella, responsabile comunicazione Ipsos, ha presentato i risultati durante la Milano Digital Week.
Il 67% dei rispondenti dice che le aziende devono guidare il cambiamento, a grande distanza dal governo, accreditato dal 26% e ai consumatori (13%), ma le aziende per prime devono cambiare il modo in cui operano nella società.
“È un ruolo politico a tutti gli effetti”, ha detto Petrella spiegando che essere civic brand significa per prima cosa prendersi cura dei propri dipendenti (83%), occuparsi di temi sociali di prossimità (82%) e prendere posizione anche su questioni più spinose (68%).
Di fronte alle marche c’è un 43% che dice di aver smesso di comprare prodotti/servizi perché deluso dal loro comportamento e ci sono anche molte persone scettiche sull’impegno sociale dei brand, che per questo deve essere condiviso stabilendo un dialogo che parte dall’ascolto (lo dice l’84%) e colmando il say-do gap con azioni concrete, che aiutando le persone ad agire, e continuando a farlo con perseveranza, perché l’attivismo è un impegno di lungo termine.
La comunicazione conta, ma solo quando ci sono fatti concreti da raccontare e soprattutto quando management e dipendenti sono consapevoli degli impegni presi dall’azienda.