Nella trasformazione continua del Festival Internazionale della Creatività rimane un punto fermo: lo Showcase di Saatchi & Saatchi che, anche se cambia nome, continua a rappresentare una certezza. Giovanni Pagano lo ha seguito e commentato per BrandNews
Detto che non è facile districarsi fra i rocamboleschi cambiamenti con cui Cannes Lions si ostina a tormentarci anno dopo anno, a cominciare dalla sua stessa definizione, passata da Pubblicità a Comunicazione per approdare attualmente alla più ecumenica Creatività; detto che per penetrare la crescente speciosità di regole inestricabili occorrerebbe ormai istituire una facoltà universitaria di Festivalogia, dove magari spiegare il senso del ridicolo ‘limite massimo’ di 6 categorie a cui iscrivere la stessa unica campagna; detto che evidentemente non c’è verso di rallentare l’indomabile superfetazione di premi e ruoli generosamente distribuiti a destra e manca, considerando che quest’anno è stato assegnato un totale vicino a quota 2.000 premi vari e che la lista di presidenti di giuria e giurati è più lunga di quella dei Privates partecipanti allo sbarco in Normandia; detto tutto questo, occorre però subito aggiungere che il Saatchi & Saatchi Showcase continua a rappresentare un consolatorio punto fermo, pur modificando anch’esso il suo focus dai ‘New Directors’ ai ‘New Creators’.
Ma al di là dell’allineamento alle mutazioni di mamma-festival, in questa nuova definizione è in realtà ravvisabile un significato profondo: l’incessante lavorìo degli scout Saatchi & Saatchi tende sempre di più a scovare non solo semplici strepitosi registi, ma soprattutto autentici inventori di mondi sbalorditivi.
E non mi riferisco tanto alla funzione narrativa tipicamente tattica dei videoclip, in cui l’episodicità del racconto sfocia spesso nel crafting virtuosistico di soluzioni realizzative mai viste, ma tutto sommato non più significative di una oniricità dolorosamente ironica (penso allo stralunato vagare di Archie e Josh nel mondo da incubo creato da Edie Lawrence per la clip di ‘Smoke hole’ dei Sad Night Dynamite); quanto al risultato più profondo di chi riesce a insufflare nella sua creazione una ‘tridimensionalità’ che finisce con l’evocare una globalità concettuale filosofica.
E sì, ‘Soft animals’ di Renee Zhan dice di raccontare l’incontro di due ex amanti in una stazione ferroviaria, ma già il titolo ammicca tanto alla tecnica narrativa quanto alla consistenza del rapporto erotico umano, pardon, ‘animale’.
Vorrei vederla lavorare, Renee, osservarla mentre violenta il foglio e i tratti, mentre calibra confusione e particolari come un farmacista folle; ma soprattutto vorrei intuire i guizzi della sua mente, oltre quelli dei suoi pastelli, perché è evidente che, se ogni mente è un universo, alcuni di questi raggiungono abissi inesplorati.
Un vero e proprio mondo virtuale lo costruisce Toberg (Toby Auberg), con un incredibile totem/diorama percorso in macro dal basso verso l’alto in un infinito piano sequenza, che si imbatte in tutti i contrasti di un’età disomogeneamente moderna che già punta ad un futuro sempre più stordente; ecco se questo ‘Pile’ così materico non fosse solo digitale, ma esistesse realmente, sarebbe un oggetto magnifico in cui tentare di perdersi.
Ma volevo arrivare a Punch-Drunk, il corto che sono certo Alfred Hitchcock avrebbe voluto realizzare. In 13′ i registi Liam White e Larry Ketang, inquadrando (quasi) sempre il volto dello straordinario Barry Ward seduto in un caffè di Marsiglia, sorpreso dal loquace apparentemente sconosciuto Corin Silva (quasi) mai inquadrato, ci precipitano nella riesumazione, inizialmente vaga ma sempre più acuminata, di un passato sconcertante e di un futuro inquietante.
Non posso dire altro: se qualcuno volesse entrare in quel caffè e in quel mondo deve potere godersi tutti i brividi che io ne ho ricavato. Ma anche in questo caso è avvenuto il miracolo che accennavo: questo corto non racconta solo una storia ‘finita’, ma insiste con tutti i suoi mezzi (inclusa la sua inquadratura claustrofobica) a trascinarvi in quel luogo ampio, e potenzialmente infinito, che è l’esperire vite altrui.