Greg Hoffman, ex Cmo di Nike e oggi consulente, ha partecipato a Intersections con una lezione sulle domande che dovrebbero farsi i marketer per dare senso e valore ai loro brand e su come motivare il pubblico attraverso narrazioni e benefit che vadano oltre la dimensione transazionale
Il design è un’etica e, quando viene coltivata nella cultura aziendale, permette di vedere in profondità e immaginare una realtà che nessuno aveva mai pensato potesse esistere. Il design inizia con un atto empatia verso il proprio pubblico, i clienti, una comunità o una città, mettendo in chiaro il problema che sta cercando di risolvere, prendendosi dei rischi e andando avanti per primi, non a traino della concorrenza.
Questo è Greg Hoffman, 28 anni in Nike, prima da grafico, poi con ruoli di leadership nel design e nel marketing e oggi nella consulenza con la sua sigla Modern Arena e autore del libro ‘Progettare emozioni’, intervistato sul palco di Intersections da Giuseppe Stigliano, President di Spring Studios.
L’intersezione tra design e marketing è un punto chiave della carriera di Hoffman nonché una delle ragioni del successo del brand per cui ha lavorato una vita: l’esempio è quello delle Air Force One, tra le sneaker più vendute in assoluto, nate nel 1982 con lo scopo di offrire un benefit agli atleti del basket. Un prodotto creato con in mente la regola numero uno del design – usable, useful, used – che con il passare degli anni è stato continuamente reso contemporaneo e culturalmente rilevante dall’universo costruito intorno ad esso dal marketing.
«La Air Force 1 è una sneaker di 42 anni, che appare esattamente come nel 1982, ma che oggi ha un livello tale di valore culturale, status, significato che continua ad avere un incredibile successo globale. La sua storia spiega una cosa che i marketer hanno dimenticato per troppo tempo: che il marketing non consiste nel far desiderare alle persone delle cose, ma è fare cose che le persone desiderano», approccio che riconnette il marketing al design e alla sua ricerca profonda di innovazione, senso e utilità. «Se troviamo modi per aggiungere valore – sia che si tratti di un nuovo prodotto, di una nuova storia, o di un modo per semplificare la vita delle persone, o di raccontare la stessa storia in modo diverso per far ridere le persone o intrattenerle – invece di spingere semplicemente le aziende a liberarsi di ciò che producono, penso che stiamo facendo marketing in modo positivo».
L’emozione, per Hoffman, è ciò che separa i brand di successo da quelli mediocri. È un aspetto che riguarda non solo l’aspetto funzionale del prodotto, ma è il modo in cui una marca fa sentire i clienti quando interagiscono con essa.
«I migliori tra i migliori si pongono anche una domanda diversa: come le persone si sentono riguardo loro stesse quando interagiscono con i tuoi prodotti e servizi. Si sentono più capaci di realizzare le loro aspirazioni e sogni quando si relazionano con il tuo brand, oppure no? Se si, come brand stai vendendo una visione audace del futuro che le persone costruiranno insieme a te. Da un lato dunque bisogna costruire valore razionale e funzionale con i prodotti, dominando l’innovazione nella propria categoria; dall’altro bisogna coltivare il valore emozionale e psicologico che permette di superare i limiti del solo prodotto. E questo è territorio del marketing, responsabile della costruzione delle associazioni del brand attraverso il racconto e la costruzione di un universo, portandolo verso un futuro che pareva fosse impossibile».
Grandi esempi di storytelling come ‘If you have a body, you are an athlete’, la mission di Nike, o headline come ‘Find your greatness’ offrono non solo ispirazione, ma portano alla luce qualcosa che le persone sanno, ma non non hanno ancora elaborato. «Queste parole permettono di rivelare il tuo insight unico, o la tua verità, in modo significativo. ‘Find Your Greatness’ ci ha permesso di raccontare che, mentre i campioni si riunivano a Londra per le Olimpiadi, nel mondo esistevano altre migliaia di località chiamate Londra dove persone come te e me stavano vivendo la loro personale versione delle Olimpiadi. Questa idea che la grandezza non è un diritto di nascita, o riservata a pochi eletti, ce l’abbiamo tutti e parla a ognuno in modo individuale».
Domandarsi quali siano i benefici superiori dei prodotti – la visione oltre la transazione – è il pensiero che ha ispirato innovazioni come Nike Plus, il bracciale tracker progettato insieme ad Apple. Un’innovazione poi dismessa, ma che ha ispirato intere categorie di prodotto.
«L’idea è nata immaginando milioni di persone che, ovunque nel mondo correvano nello stesso momento, a cui potevamo connetterci digitalmente. Di fatto è stato il primo programma di membership basato su un bene di consumo, o un movimento» spiega Hoffman, citando anche gli Air Max Day come esempio di evento che riunisce la community, invitata a esprimere il proprio amore per la marca e a sentirsi una comunità, con una missione: muoversi. Altri esempi di mission motivanti e aggregatici di community contribuiscono al successo di Lego, che “crede nello sviluppo e nell’ispirazione dei costruttori di domani”, e di Red Bull che “ti mette le ali”. Per non parlare della Nasa: “We reach for new heights and reveal the unknown for the benefit of humankind”.
«A volte devi guardare i fondamentali e padroneggiarli. Perché un mission statement che sia semplicemente quello di vincere ed essere l’azienda più grande della tua categoria non è qualcosa in grado di creare una relazione».
E che succede quando un brand come Nike sceglie di sposare cause controverse, come quella della lotta al razzismo con Colin Kaepernick?
«Nike ha una lunga tradizione nel servire gli atleti nei momenti migliori e nei momenti più difficili. La campagna “Stand up, Speak Up” risale ai primi anni 2000, quando il razzismo negli stadi era dilagante. Come brand era naturale che facessimo un passo in avanti, alzandoci in piedi e parlando, perché amiamo lo sport e vogliamo renderlo più accessibile ed equo. In realtà la campagna “Stand up, Speak Up” potrebbe essere lanciata oggi perché questi problemi ci sono ancora. L’importante è che ci sia continuità, con lo spirito del tempo e con la tua autenticità come marca e come leader, che è la tua valuta culturale. Perché se il tuo pubblico non vede la connessione tra ciò che dici e ciò che sta accadendo nel mondo, in quel momento, probabilmente non è il caso che ne parli. I brand hanno la capacità di spingere le persone all’azione, a volte più dei governi e delle istituzioni no profit, ma il modo in cui lo fanno deve essere autentico. Non si può inseguire qualcosa solo perché è nella tua mente quel momento, ma non ha relazione con ciò che vendi».
Un ultimo cenno sull’intelligenza artificiale generativa. «Credo che l’AI sia qui per elevare e amplificare l’umanità, non per sostituirla, certamente anche nel design e nel marketing. Ecco un esempio: una volta ci abbiamo messo due settimane a produrre un concept riguardo una collaborazione tra Nike e Airbnb. Ho provato a rifare la stessa domanda all’AI, senza team né sala riunioni, e ho avuto la risposta nel giro di 5 secondi. È uno strumento incredibile per che supporta l’ideazione, che permette di avere idee più velocemente. L’AI però non dirà mai chi sei e chi dovresti essere. Questo è il lavoro del marketer e del designer. Dobbiamo diventare esperti nel guidare l’AI con prompt ed editing, ma spetta a te definire qual è la personalità della marca, quali sono le sue caratteristiche, tratti, voce, identità. L’AI è una compagna di squadra super-umana, che ti permette di andare in luoghi che non avresti potuto raggiungere, e l’ultima cosa che dobbiamo fare è ignorarla».
F.B.