Una nuova ricerca della Incorporated Society of British Advertisers (ISBA), l’associazione degli inserzionisti pubblicitari britannici, ha rilanciato l’allarme sulla trasparenza della filiera del programmatic adv. Costi a parte, un terzo di quanto speso per il trading non è attribuibile
Un nuovo studio realizzato da PwC per ISBA, l’associazione degli inserzionisti pubblicitari UK, riporta l’attenzione sull’opacità che, ancora, circonda la filiera del programmatic advertising.
Insieme all’Association of Online Publishers (AOP) e a PwC che ha materialmente condotto la ricerca, l’associazione sostiene che il dettaglio e la profondità dello studio sono inediti a livello globale, anche se l’iniziativa prende le mosse da studi analoghi condotti dalla World Federation of Advertisers e dalla Association of National Advertisers negli USA.
Incrociando i dati di 15 inserzionisti – tra cui Unilever, Vodafone, Arla, BT, British Airways, Disney, HSBC, Nestlé -, 12 editori, 8 agenzie, 5 DSP e 6 SSP, l’ISBA Programmatic Supply Chain Transparency Study mappa tutta la filiera e stabilisce usando dati di mercato reali dove finisce ogni penny speso da queste aziende, che rappresentano all’incirca 100 milioni di spesa in programmatic media.
Il problema non è tanto quello dei costi delle tecnologie applicate ad ogni stadio (la cosiddetta adtech tax), ma la complessità, la mancanza di organizzazione e l’opacità: una parte dei soldi infatti si perde, letteralmente, nel nulla. Non si sa a chi attribuirlo, ma manca all’appello. Il che è molto grave, essendo una quota pari al 15% del budget degli inserzionisti.
Una filiera labirintica è quella che si è presentata agli occhi degli analisti di PwC, che hanno identificato oltre un migliaio di distinte supply chain; 290 catene sono state mappate dai 15 inserzionisti ai 12 editori. PwC ha riscontrato numerosi punti opachi che non portano alcun beneficio delle aziende spender, a livello di comprensibilità e consistenza dei dati condivisi dai fornitori di adtech, di mancanza di uniformità nella conservazione e formattazione dei dati. Inoltre i dati catturati dalla DSP per un’impression non vengono catturati nello stesso modo dalla SSP, cosa che pregiudica la loro comparazione.
Di tutto questo denaro, solo il 51% va agli editori mentre, dedotti i costi visibili delle fee delle DSP/SSP e quelli relativi alle tecnologie, resta quel 15%, pari a un terzo dei costi della supply chain, che non ha alcuna giustificazione.
Come ha commentato Graeme Adams, Head of Media di BT Group, “c’è un grande buco nella catena del valore. Abbiamo disperatamente bisogno di vedere adottato un set di standard comuni e più trasparenza in questo mercato, in modo che si sappia dove vada ogni penny. Se questo accadrà, investiremo di più in nel programmatic; se no lo taglieremo e rimodelleremo il nostro approccio al trading”.
La questione non finirà qui, anzi, le aziende hanno annunciato l’istituzione di una taskforce e ulteriori analisi, invocando la collaborazione di tutto il settore, per capire dove finisca questo ‘unknown delta’.