Rispetto allo scorso sondaggio del 2021, nella nuova wave della ricerca promossa dalla WFA, World Federation of Advertisers, il livello dell’inclusione è rimasto invariato nonostante gli sforzi delle aziende per aumentare la diversità, trattenere i talenti e migliorare il loro appeal
La percezione generale riguardo diversità, equità e inclusione nel settore della pubblicità e del marketing è di un generale miglioramento, tuttavia andando ad analizzare bene la situazione ci si accorge che in realtà il livello non progredito. E infatti, quasi una persona su 7 a livello globale lascerebbe il settore proprio a causa della mancanza di diversità, equità e inclusione.
Lo dice l’edizione 2023 del Global DEI Census promosso dalla WFA, World Federation of Advertisers, in collaborazione con 160 tra enti, testate e associazioni degli inserzionisti e delle agenzie globali, regionali e locali tra le quali le italiane UPA e UNA, i cui risultati si basano su quasi 13.000 risposte di professionisti del settore provenienti da 91 paesi.
La ricerca è inoltre sostenuta da aziende tra cui Bayer, BP, Danone, Diageo, Dentsu, The Estée Lauder Companies, Haleon, Havas, KraftHeinz, L’Oréal, McCann, Meta, Philips, Reckitt, Sanofi e Wpp.
Dunque, il 72% nota dei miglioramenti (con variabili regionali significative, dall’87% del Canada al 49% del Giappone) grazie agli sforzi compiuti dalle aziende per aumentare la diversità, trattenere i talenti e migliorare il loro appeal per i potenziali dipendenti in tutto il mondo, ma in realtà vediamo che il livello complessivo di inclusione, calcolato sulla base delle risposte alle domande riguardanti il senso di benessere, l’assenza di discriminazioni e la presenza di comportamenti negativi, è quasi identico al 2021.
L’indice di inclusione DEI globale era del 64% due anni fa (69% per gli uomini e 61% per le donne) e quest’anno è del 63%, con il 69% per gli uomini e il 61% per le donne. Per i partecipanti LGBQ+, l’indice è diminuito di due punti, passando dal 60% al 58%.
Una persona su 7 lascerebbe dunque il settore, ma il dato peggiora tra le donne (quasi 1 su 6, il 16%), le persone LGBQ+ (1 su 6, il 17%), minoranze etniche (più di 1 su 5, il 22%) e delle persone con disabilità (quasi 1 su 4, il 24%). I giovani 25-34 enni sono i più propensi a salutare il mondo della pubblicità e anche i caregiver rispetto alla media globale (18% vs 14%).
Le forme più comuni di discriminazione segnalate riguardano ancora l’età, il genere e lo status familiare. Il 41% delle donne, il 42% dei genitori e il 39% dei caregiver ritengono che le responsabilità familiari ostacolino la loro carriera. Il 12% dei giovani tra i 18 e i 24 anni e il 17% delle persone tra i 55 e i 64 anni sostengono di aver personalmente subito discriminazioni legate all’età, rispetto a una media globale complessiva dell’8%.
Le donne, le persone LGBQ+, le persone parte di minoranze etniche e soprattutto quelle con disabilità (45% che dicono di avere una buona esperienza lavorativa rispetto al 67% dei non disabili) sono ancora quelle che dichiarano esperienze peggiori rispetto ai loro colleghi. Le donne e le persone di minoranza etnica segnalano anche una sotto-rappresentazione nelle posizioni di alto livello. Inoltre, quasi la metà dei partecipanti ritiene ancora che le decisioni di promozione o assunzione possano essere discriminatorie: solo il 55% crede all’assenza di discriminazioni, quota che scende al 52% per le donne, al 51% per le persone di minoranza etnica, al 49% per le persone LGBQ+ e al 43% per i rispondenti con disabilità.
Stress e ansia predominano, con il 42% dei partecipanti che afferma di sentirsi stressato e ansioso sul lavoro e in Italia la situazione è la più pesante in assoluto, con un picco del 52%. Tra l’altro proprio l’Italia è il paese con la percentuale più bassa di persone (il 31%) che ritengono la propria azienda aperta riguardo alle questioni di salute mentale. Dal lato opposto, l’Olanda è il paese meno stressato, in cui solo il 26% si dice ansioso.