David Droga apre ufficialmente i lavori di Cannes Lions 2018 facendo il punto sulla sua carriera
CANNES – Considerazioni su Cannes Lions – più piccolo, mentre il business dell’adv diventa più grande – molte battute lanciate alla platea, che ride e applaude, dall’ampia poltrona bianca al centro del palco, la giacca abbandonata su un bracciolo perché se non è a suo agio non produce buone idee, David Droga apre ufficialmente i lavori di Cannes Lions 2018 facendo il punto sulla sua carriera. Lo fa in modo più rilassato di quanto non abbia fatto lo scorso anno ricevendo il Lions of st. Mark, per raccontare non una vision o gli ultimi trend, ma i punti di svolta che hanno segnato i suoi 30 anni nell’advertising, i più personali e importanti, quelli che lo hanno formato e lo definiscono per come è oggi, ma dicono anche molto su come è diventato il lavoro delle agenzie, soprattutto quelle più grandi.
Turning point. Il primo è stato l’aver cominciato questo mestiere dalla ‘mail room’ di un’agenzia di pubblicità. “Ho imparato presto a fare il mio lavoro in un’ora e mezzo, il resto del tempo lo passavo ad ascoltare gli altri, guardarmi intorno, fomentando la mia curiosità e scoprendo che volevo essere uno scrittore”.
Il secondo di aver trovato da giovane i mentori giusti, che nel bene e nel male hanno stimolato la sua ricerca di libertà e di senso nel lavoro che fa.
Oggi, ha detto, un gran pezzo dell’industry è ben contento che i creativi si accontentino di coltivare il proprio ego vincendo premi invece di far qualcosa che abbia un impatto concreto, cercando di riconoscere il proprio valore e quello del mestiere che fanno.
Ego. Ha parlato anche del suo ego, di quella volta in cui appena 19enne sul set per il suo primo commercial TV ha ordinato tutto quello che c’era sul menu della prima colazione – “5 carrelli di roba da mangiare” – e di quando 5 anni fa ha rischiato di perdere il controllo – e ha perso malamente il Chief Creative Officer Ted Royer – perché le cose andavano troppo bene, i grandi clienti facevano la fila e i premi arrivavano a valanga. Per fortuna ha saputo anche riconoscere i “deflating magical moments” come la chiamata di una grande multinazionale del beverage, la presentazione di un’ora e mezzo a due giovani uomini, pensando “guarda quanto è cool quest’azienda che affida a ragazzi posizioni di responsabilità”, per poi scoprire che erano stati ricevuti da due stagisti, non dal CMO.
“Sono contento del buon momento di cui oggi gode l’agenzia, dico a tutti di godersi l’hype, ma di non farne un’ossessione, né pensare che la reputazione duri per sempre”, ha confessato, consigliando di non guardare il mondo dallo specchietto retrovisore.
“Pretendere di essere qualcun altro, qualcos’altro, non funziona mai, io sono ossessionato dalle emozioni da come le persone sentono qualcosa che le tocca profondamente”: lezione imparata durante la gara per un grande gruppo assicurativo, cercando di conformare l’agenzia alle attese che avrebbe potuto avere un cliente così e che invece aveva chiamato l’agenzia proprio per quello che era.
Ossessioni. Nel DNA di Droga5 c’è, anche, l’aver rifiutato un grande budget che avrebbe aiutato la crescita dell’agenzia, nata allora solo da 18 mesi, “perché se avessi fatto qualcosa per denaro, solo per denaro sarei diventato la persona che non avrei mai voluto essere”.
E di tutti i suoi lavori ne ha voluto mostrare solo uno, realizzato per Christie’s in occasione dell’asta per il ‘Salvator Mundi’ di Leonardo perché, dice, rompe tutte le convenzioni rispettate dai lavori che si vedono qui a Cannes “perché è lungo, non è un 6”, riguarda le persone e le loro emozioni e la migliore advertising, per me, è viscerale”.
E dice di aver capito meglio perché la gente odia la cattiva pubblicità guidando l’auto dal suo albergo al Palais: perché è come il telone appeso all’hotel Carlton che, per dichiarare un’azienda ‘proud sponsor’ di qualcosa, oscura le finestre di un paio di stanze, deturpa la facciata di un bel palazzo fin de siècle e “non serve alcuno scopo, è solo egoista e interrompe”.