Uno screening della Commissione Europea e delle Agcm di 24 paesi ha rilevato che c’è ancora molta opacità nelle comunicazioni commerciali da parte degli influencer. Su un campione di 576 creator, su 358 sono state rilevate irregolarità e 119 hanno promosso prodotti o servizi non salutari o pericolosi
In Italia il caso Ferragni-Balocco ha segnato uno spartiacque nell’influencer economy e ha portato alla definizione delle linee guida da parte dell’Agcom per regolamentare un mercato che, nel nostro Paese, ha raggiunto nel 2023 un valore stimato di 323 milioni di € (fonte: Upa). Ma in Europa c’è ancora una certa anarchia sul fronte: dallo screening effettuato dalla Commissione Europea e, contemporaneamente, dalle autorità nazionali per la protezione dei consumatori di 22 Stati membri (tra i quali l’Italia) più Norvegia e Islanda, emerge che appena il 20% degli influencer monitorati che pubblica contenuti sponsorizzati ha indicato sistematicamente la loro natura pubblicitaria. Tanto più a pochi giorni dall’entrata in vigore del Digital Services Act in tutta l’UE per tutte le piattaforme online, il 17 febbraio.
Lo screening ha passato in rassegna i post di 576 influencer pubblicati sui principali social media e, alla luce dei dati emersi, la Commissione avvierà approfondimenti sulla situazione di ben 358 di loro. Prima con un richiamo a mettersi in regola con la normativa europea; se necessario potranno essere emesse multe dalle autorità nazionali. Non solo: posto che c’è una certa differenza tra le merendine e i bitcoin, 119 influencer hanno promosso attività non salutari o pericolose come junk food, alcolici, trattamenti medici o estetici, gioco d’azzardo o servizi finanziari come il trading di criptovalute.
Dunque il 97% dei creator ha pubblicato post con contenuti commerciali, ma solo il 20% li ha contrassegnati correttamente come pubblicità.
Il 78% di loro esercita un’attività commerciale, ma solo il 36% appare registrato come commerciante a livello nazionale. Il 30% nei post non fornisce nessuna indicazione di natura aziendale, come l’indirizzo e-mail, il nome dell’azienda, l’indirizzo postale o il numero di registrazione.
Il 38% non ha usato le apposite etichette messe a disposizione dalle piattaforme per diffondere contenuti commerciali (ad esempio la dicitura ‘paid partnership’ predisposta su Instagram) preferendo altre formule come “collaborazione” (16%), “partnership” (15%) o ringraziamenti generici al brand partner (11%).
Inoltre solo il 40% degli influencer monitorati ha reso visibile la disclosure durante tutta la collaborazione commerciale (nel caso, ad esempio, di più storie), mentre appena il 34% di essi l’ha resa visibile senza ulteriori passaggi, come click o scroll.
Il 40% degli influencer ha inoltre promosso i propri prodotti, servizi o brand, ma il 60% di essi non ha dichiarato la natura pubblicitaria di tale promozione in modo coerente (c’è da dire che, su questo aspetto, la normativa non è ancora chiarissima).
Infine, il 44% degli influencer possiede un sito web, da cui vende prodotti direttamente al proprio pubblico.
«L’attività degli influencer è diventata un lavoro a tutti gli effetti. La maggior parte di loro, infatti, genera ricavi dai propri post ma non sempre questo è chiaro ai loro follower, molti dei quali sono minorenni. Li esorto dunque a essere più trasparenti con il loro pubblico» ha commentato Didier Reynders, Commissario per la Giustizia.
Dei 576 influencer esaminati, 82 avevano oltre 1 milione di follower, 301 oltre 100mila e 73 tra 5.000 e i 100mila. Diverse le piattaforme su cui sono attivi: 572 influencer pubblicano post su Instagram, 334 su TikTok, 224 su YouTube, 202 su Facebook, 82 su X, 52 su Snapchat e 28 su Twitch. I settori in cui sono per lo più attivi sono, in ordine decrescente, moda, stile di vita, bellezza, cibo, viaggi e fitness/sport.
Nel 2023 ha lanciato l’Influencer Legal Hub, dove gli influencer possono trovare informazioni pratiche sulla conformità alla legge dell’UE.