L’avvocato Gilberto Cavagna di Gualdana, fondatore di Bipart Studio legale, analizza la decisione del Tribunale di Venezia che sanziona l’uso non autorizzato dell’“Uomo vitruviano” di Leonardo per un puzzle da parte di Ravensburger. La riproduzione di beni culturali a fini commerciali non è permessa
“Veduto Leonardo non si pensa più alla possibilità di fare molti progressi”. Lo ha detto Paul Klee, forse lo ha pensato anche la Ravensburger, famosa società (di origine tedesca ma presente anche nel nostro paese) leader nel mercato dei puzzle in Europa che, nonostante gli avvertimenti e le contestazioni, ha continuato a commercializzare un prodotto che riproduceva il celeberrimo “Uomo vitruviano”, per l’appunto di Leonardo da Vinci, custodito ed esposto alle Gallerie dell’Accademia di Venezia; utilizzato per lo meno sino all’ordinanza del Tribunale di Venezia del 17 novembre 2022, con la quale i giudici marciani hanno inibito alla azienda di giocattoli e giochi da tavolo qualsiasi riproduzione dell’opera a fini commerciali, su qualsiasi prodotto e strumento (anche su Internet, inclusi i social network), con tanto di previsione di penale in caso di mancato ottemperamento dell’ordine.
Il Tribunale di Venezia, infatti, all’esito del procedimento cautelare promosso dalle Gallerie dell’Accademia con il Ministero della Cultura, ha ritenuto che l’utilizzo e la riproduzione dell’immagine dell’ “Uomo Vitruviano” di Leonardo e del suo nome, quale bene culturale custodito ed esposto alle Gallerie dell’Accademia, costituisse un illecito oltre che degli artt. 6, 7 e 10 e del codice civile, di quanto previsto nel “Regolamento per la riproduzione dei beni culturali in consegna alle Gallerie dell’Accademia di Venezia” in conformità agli artt. 107-109 del Codice dei Beni Culturali (d.lgs. 42/2004) e, in particolare, all’art. 108, “Disposizione, questa, che demanda all’Amministrazione custode del bene culturale il potere di autorizzare/concedere la riproduzione dell’immagine del bene e di determinare i canoni di concessione e i corrispettivi della riproduzione tenuto conto a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso; b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni; c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni; d) dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente”.
In forza di tale contesto normativo, i giudici hanno quindi ravvisato come la condotta contestata costituisse un “illecito determinante un danno risarcibile ex artt. 2043 e 2059 c.c., laddove il danno è costituito, in primo luogo, dallo svilimento dell’immagine e della denominazione del bene culturale (perché riprodotti e usati senza autorizzazione e controllo rispetto alla destinazione) e, in secondo luogo, dalla perdita economica patita dall’Istituto museale (per il mancato pagamento del canone di concessione e dei corrispettivi di riproduzione)”.
Se la mancata corresponsione del canone di concessione da parte delle resistenti non costituisce un irreparabile pregiudizio di carattere patrimoniale, tanto più – come evidenziato in ordinanza – in ragione dell’assoluta capienza del Gruppo Ravensburger, il tribunale ha ritenuto invece che potesse costituire un danno (non patrimoniale) irreparabile e imminente lo svilimento dell’immagine e del nome dell’opera in questione, determinato dal perpetuarsi dell’utilizzo incontrollato a fini commerciali della sua riproduzione, utilizzo avvenuto “senza il necessario e preventivo vaglio da parte dell’Amministrazione consegnataria circa l’appropriatezza della destinazione d’uso e delle modalità di utilizzo del bene in rapporto al suo valore culturale” e che pertanto giustifica (anche dal punto di vista del periculum in mora necessario) l’emanazione del provvedimento cautelare di condanna.
I giudici della seconda sezione civile del tribunale veneziano hanno inoltre rigettato la tesi, sostenuta dalle società reclamate, secondo cui il periculum sarebbe del tutto carente avendo il Gruppo Ravensburger iniziato l’attività già dal 2009 nella totale indifferenza delle controparti, ritenendola priva di pregio poiché, nel nostro ordinamento, “non sussiste alcun onere o obbligo per le reclamanti di effettuare un controllo costante sul mercato –tradizionale e online- al fine di verificare periodicamente la presenza di prodotti illecitamente riproducenti l’immagine e il nome dei numerosissimi beni culturali custoditi nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ivi compreso il disegno di Leonardo da Vinci” e, peraltro, nel caso in esame “non sussistono elementi per ritenere attribuibile alla tolleranza o all’inerzia delle odierne parti reclamanti il periodo di tempo trascorso tra l’invio della diffida al Gruppo Ravensburger e il deposito del ricorso cautelare dinanzi a questo Tribunale, avendo le prime documentato di aver dapprima intavolato una trattativa con la controparte per la composizione bonaria della lite e successivamente – constatata l’impossibilità di una transazione e la complessità della materia – di aver richiesto un parere alla Direzione Generale Musei del Ministero della Cultura e successivamente all’Avvocatura dello Stato”.
In ragione dell’importanza e del valore del bene culturale in questione per la collettività locale e nazionale e, per altro verso, dell’esigenza di limitare l’aggravamento della lesione della sua immagine e del suo nome derivante dalla significativa portata della condotta illecita perpetrata dal Gruppo Ravensburger (tenuto conto del suo già riconosciuto ruolo di leader nel mercato della commercializzazione dei giocattoli e della conseguente enorme diffusione dei suoi prodotti sul mercato nazionale ed estero), il Tribunale di Venezia ha inoltre disposto la pubblicazione del provvedimento su due quotidiani a diffusione nazionale e su due quotidiani a diffusione locale, anche nelle loro versioni online.
L’ordinanza è stata anche l’occasione per ricordare come il Codice dei Beni Culturali italiano “rappresenta un unicum a livello europeo proprio in considerazione del fatto che, con la sua adozione, il Legislatore ha inteso tutelare al meglio un interesse ritenuto essenziale per lo Stato italiano (notoriamente famoso in tutto il mondo soprattutto per il suo immenso patrimonio storico-artistico e culturale, valore costituzionale riconosciuto all’art. 9 Cost. e identitario della collettività in una dimensione di fruizione pubblica), divenendo dunque il rispetto delle disposizioni codicistiche –ivi compreso l’art. 108, avente dunque carattere imperativo similmente alle altre disposizioni- assolutamente cruciale per la salvaguardia dell’interesse pubblico, tanto sociale quanto economico (sul punto, la Corte di Giustizia ha già avuto modo di affermare che “conservazione del patrimonio storico ed artistico nazionale possono costituire esigenze imperative che giustificano una restrizione della libera prestazione dei servizi” sent. del 21.02.1991, C- 180/89)”.
Non è la prima volta che un tribunale si pronuncia sulla illecita riproduzione di beni culturali (sebbene le pronunce sul tema siano ancora poche).
Recentemente, infatti, il Tribunale di Firenze ha condannato un centro di formazione toscano per giovani scultori per aver riprodotto senza autorizzazione il David di Michelangelo nel proprio sito (ord. del 14 aprile 2022) e, più in passato, sia il Tribunale di Firenze, sempre in merito al David (ord. del 26 ottobre 2017), che quello di Palermo, per una riproduzione del Teatro Massimo (sentenza del 21 settembre 2017), avevano stigmatizzato la riproduzione illecita di beni culturali.
Queste prime pronunce sul tema della illiceità della riproduzione non autorizzata dei beni culturali a fini commerciali hanno tuttavia il grande pregio di ricordar(ci) un principio pacifico (per lo meno per quanto riguarda le opere conservate nei musei), ma ad oggi francamente ancora troppo poco ottemperato, e dimostra l’attenzione prestata dal Ministero per la valorizzazione di un assets, quello dei beni culturali, che costituisce un importante patrimonio del nostro paese (e, probabilmente, il volano del nostro futuro).
Avv. Gilberto Cavagna di Gualdana, Bipart Studio legale
Il presente contributo è stato pubblicato anche su QuotidianoPiù.