La cultura d’impresa non ha mai seriamente sviluppato un pensiero di speranza, e se lo ha fatto lo ha considerato un lusso, oggi è tempo di trovare nuovi obiettivi e nuovi valori su cui fondarsi
di Francesco Morace, sociologo e fondatore di Future Concept Lab
Pochi ricordano che il 21 dicembre 2012 il pianeta andò in fibrillazione per la Profezia dei Maya che per quella data annunciava la Fine del Mondo. Intere comunità di Apocalittici in varie parti del globo si prepararono all’Evento Finale. Qualcosa di simile avvenne nel dicembre 1999 con il Millennium Bug che annunciava un drammatico blackout dell’intera rete informatica, diventata infrastruttura vitale per tutta la comunità degli umani: in entrambi i casi nulla accadde.
I grandi Eventi della storia ci colgono quasi sempre impreparati: le Guerre Mondiali, la caduta del Muro, l’11 settembre: il dilagare del Covid-19 non fa eccezione. Per quanto fosse plausibile e probabile, ha colto larga parte del mondo impreparato: in termini sanitari, sociali ma soprattutto psicologici. La fatica che abbiamo fatto – nella seconda ancor più che nella prima ondata – è stata soprattutto concettuale. Accettare quote di incertezza cui non eravamo più abituati, gestire una fragilità personale e familiare che pensavamo aver definitivamente lasciato alle nostre spalle come doloroso ricordo delle generazioni precedenti, caricarsi di responsabilità sociali e civili che erano scomparse dal nostro orizzonte esistenziale. Accettare fragilità e incertezza per un manager è compito quasi impossibile, è una sensibilità che non è stata mai insegnata, anzi chi la vive nel personale, è scoraggiato a utilizzarla nella vita professionale, se ha responsabilità direttive.
Il mondo della comunicazione e dei media a sua volta ha reagito in modo scomposto, dimostrando la stessa impreparazione e inadeguatezza: dopo la prima reazione di generico solidarismo è entrato negli ultimi mesi in una fase asfittica. Mancanza di respiro e di pensiero lungo.
Non si tratta tanto dell’infodemia su cui troppo si è insistito: si è accusato i media di parlare sempre e solo del virus. Ma in una vicenda epocale come questa di cosa altro dovremmo parlare? Chi ci ha provato ha rischiato la stonatura… No, non è tanto questo il problema, ma piuttosto l’incapacità di fare un salto di qualità, focalizzandosi sulle necessità del durante e del dopo, evitando sterili discussioni (per esempio, contro o a favore della didattica a distanza o dello smart working) e prendendo il toro per le corna. Quale normalità desideriamo per il dopo? Quale contributo personale siamo disposti a mettere in campo? Quali attitudini manageriali siamo disposti a mettere in discussione? E quali competenze educative? È l’intero mondo della cultura d’impresa che deve interrogarsi e trovare un senso nuovo, nuovi obiettivi, nuovi valori su cui fondarsi.
Accogliendo il 2021 ci ritroviamo allora a un passaggio simbolico e operativo, necessario per la rinascita. Avremo bisogno di antidoti e vaccini per difenderci, ma soprattutto di ricostituenti per ripartire. La speranza diventa il ricostituente in questa condizione di fragilità. La speranza implica non solo che un risultato desiderato sia realizzabile, ma anche che quell’idea funzioni – sul piano della motivazione – come compensazione per l’incertezza del risultato.
Non coincide quindi con l’ottimismo della volontà (andrà tutto bene!) che porta fuori strada, ma con la consapevolezza del discernimento: combina il forte desiderio di un esito positivo con la sensazione che questo potrebbe non realizzarsi. La speranza appare un piacere anticipatorio, che si gioca nel futuro come una sfida da affrontare. La speranza condivide lo statuto di ogni realtà fragile e bisognosa di cura: che si nutre, si accarezza, si coltiva. Come l’amore, la speranza si impara e può accadere laddove, pur alimentandosi della propria incertezza, essa resista al suo naufragio e diventi realtà generativa. Questa è la sfida che ci attende e nei prossimi mesi dovremo attrezzarci per affrontarla. La cultura d’impresa non ha mai seriamente sviluppato un pensiero di speranza, e se lo ha fatto lo ha considerato un lusso, la ciliegina su una torta che era tutta e solo economica: oggi le ciliegie della speranza devono essere impastate nel lievito della torta, per farla crescere in modo sano, alimentando un anno in cui lasciar spazio a nuove visioni e alleanze.