Nella fase 2 e ancor più nella fase 3, la giusta distanza sarà segnata dall’immaginazione utopica e dalla tensione verso un mondo migliore, rispetto a quello colpito così violentemente dalla pandemia. Come hanno fatto, in modo diverso, Giorgio Armani e P&G
di Francesco Morace, sociologo e fondatore di Future Concept Lab
La primavera sospesa che stiamo vivendo ci lascerà un frutto maturo: la giusta distanza. In comunicazione la giusta distanza misura il valore essenziale di una brand e la relazione virtuosa con la sua comunità. Non è la distanza del troppo vicino, inutilmente invasivo. È quella distanza che – facendo un passo indietro – ci permette di inquadrare la realtà, per meglio metterla a fuoco.
La giusta distanza qualifica le cose, quando impariamo a maneggiarle con cura, con gesti misurati da artigiano. La giusta distanza trasforma le informazioni in conoscenza, attraverso riflessione e confronto. La giusta distanza valorizza il digitale che altrimenti rischia di diventare un gorgo in cui precipitiamo, invece di essere un pozzo da cui estrarre secchiate di meraviglia. La giusta distanza ci aiuta a temperare noi stessi, limando ego ipertrofici che rischiano di portarci alla rovina.
Nella fase 2 e ancor più nella fase 3, la giusta distanza sarà segnata dall’immaginazione utopica e dalla tensione verso un mondo migliore, rispetto a quello colpito così violentemente dalla pandemia.
In questa riflessione ci aiuta Roberto Mordacci, Preside della Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele e autore di Ritorno a utopia, un libro che poco prima dell’arrivo del covid-19 affermava in quarta di copertina: “Il mondo contemporaneo ha assoluto bisogno di pensare il futuro come una possibilità buona”.
Io credo che oggi le brand debbano cogliere questa occasione unica, riscattandosi da un recente passato in cui la pervasività dei social e l’ansia da influencing ha sostituito vision lungimiranti e mission credibili. Si tratta di trovare la giusta consonanza con la società civile. Scrive Mordacci a questo proposito: “Non dobbiamo solo evitare l’errore di credere che tutto tornerà come prima. Molto sarà sacrificato e irrecuperabile, molto andrà riprogettato dalle fondamenta. E in questo spazio di ri-creazione è assolutamente necessaria una forma di pensiero che abbiamo poco praticato dopo la “fine delle grandi narrazioni” (come la chiamano i post-modernisti à la Lyotard): il pensiero utopico, unico antidoto alla distopia. Pensare utopicamente significa immaginare in concreto, proprio a causa di condizioni nuove e difficili, quale sia il giusto assetto delle relazioni sociali, il ragionevole bilanciamento dei costi e dei benefici, la tutela delle persone (in particolare i più fragili, drammaticamente lasciati per ultimi in questa crisi), le forme della libertà possibile: pensare praticamente il post-epidemia significa pensarlo politicamente e moralmente. È materia per tutti noi. Dobbiamo stabilire, niente meno, come vogliamo che sia, che forma abbia, una vita ragionevolmente buona in queste condizioni inaudite. È un esperimento sociale mai provato prima perché, per la prima volta, accade su una scala veramente globale. Come vogliamo muoverci, comunicare, produrre, abitare la terra, in una parola: vivere?”.
Concludiamo con due esempi molto diversi di visione utopica. Da un lato Giorgio Armani che con la sua lettera rivolta al mondo della moda ha coraggiosamente affermato: la moda ora deve rallentare il suo ritmo insostenibile. Dall’altro, l’utopia che si fa concreta per un prodotto che hai già acquistato e di cui viene rimborsata metà della spesa sostenuta, senza che il consumatore l’abbia richiesto. Quello che ha deciso di fare P&G con l’iniziativa Ora Riparti da Te: a tempi straordinari si risponde con iniziative altrettanto fuori dall’ordinario.