Di Fabrizio Fornezza, ricercatore sociale e di mercato, presidente di Eumetra Monterosa
Il patto con la marca e la consapevolezza del cittadino-consumatore
“Se è gratis… il prodotto sei tu”. Questo fulminante aforisma, che ha riecheggiato in molti commenti delle settimane scorse, in occasione dello scandalo Facebook e Cambridge Analytica, racconta un dato incontrovertibile sullo scambio fra noi e il mondo dei social media.
Riceviamo servizi social gratuiti, che accogliamo con piacere. In cambio, qualcuno venderà il nostro profilo, più o meno dettagliato, sul mercato della pubblicità. Poco importa se a fini di comunicazione commerciale, politica o semplicemente sociale.
Un problema non legato solo a Facebook. Tutti o quasi i social media, tanti scambi apparentemente gratuiti sul web, tante app gratuite, lo stesso modello della comunicazione web basata sul Programmatic, funzionano con il medesimo principio, pur se eseguito in forme varie. Non paghiamo, ma in cambio riconosciamo implicitamente o esplicitamente il diritto di usare qualche nostro dato (più o meno personale), di venderlo a terzi, talvolta con l’abbinamento dei nostri profili, altre volte solo con l’abbinamento dei nostri comportamenti (il caso dei cookies e del Programmatic Advertising).
Questa pratica sociale è diventata scontata e, nei fatti, accettata da tutti noi, almeno implicitamente.
Il potenziale però – come tutti i ricercatori sanno ed hanno ben dimostrato i data scientist di Cambridge Analytica – va oltre l’uso attuale.
L’accesso ai dati del proprio profilo social e la profilazione one-to-one (una sorta di deep Big data) è stata in questi anni l’oggetto delle proposte di molte società di consulenza che hanno suggerito a molte aziende loro clienti questa opportunità. Convincere i clienti e i prospect a dare accesso alle proprie informazioni social (in cambio di qualche vantaggio) per poi profilarli, studiare in profondità il loro mondo personale e relazionale, unire questi dati con i loro profili comportamentali nell’uso dei servizi e, alla fine, fare a loro offerte personalizzate, quasi intime. Offerte che, appunto, non si potrebbero rifiutare.
Questo disegno non ha nulla di malvagio, anzi. È un normale scambio sociale. A patto che le persone che lo accettano siano consapevoli.
In realtà, gli italiani mostrano qualche contraddizione ed ambivalenza nei loro comportamenti. Sono ben felici di usare servizi web apparentemente gratuiti. La loro fiducia nel settore dei grandi brand del web – almeno prima della crisi Cambridge Analytica – era superiore alla media, rispetto a tanti altri settori industriali e dei servizi (cfr: indici di brand trust tratti dalla ricerca Eumetra MR sul “Benessere degli italiani”- 2017).
Ma quando nelle ricerche (Osservatori Eumetra 2016 e 2017) la domanda è posta in esplicito: “daresti accesso alla tua privacy ad una marca in cambio di vantaggi gratuiti (servizi, ecc.)?” la risposta un poco stupisce: solo 2 internauti su 10 dichiarano di essere “scientemente” disposti ad accettare questo scambio. Anche nel caso in cui l’offerta provenga da un proprio fornitore di fiducia: la mia banca, il mio editore, uno dei miei fornitori di servizi.
Il dato è stabile fra il 2016 e il 2017, vedremo nei prossimi mesi del 2018, attraverso i nuovi osservatori Eumetra MR che condurremo, se il trend di accettazione si riprenderà o meno, una volta allontanata la recente crisi.
In questi dati, il gap fra comportamento e intenzione degli italiani resta evidente, il rischio e il “value at risk” – per i player del web e non solo per loro – resta piuttosto elevato, stimiamo.
Appena la consapevolezza (o l’ansia) si alza, la possibilità che scatti una crisi reputazionale – che si può trasformare anche in una crisi di business – non è marginale in queste circostanze.
Certamente, il nuovo patto che Facebook proporrà ai suoi internauti aiuterà a diminuire il rischio e traccerà la via per uno scambio più esplicito e consapevole fra brand e cittadino-consumatore.
Il tema del nuovo patto fra brand (non solo digital) e consumatore si pone dunque all’ordine del giorno, anche al di là delle recenti polemiche e dell’entrata in vigore del GDPR (nuova regolazione della data privacy).
Un patto in cui il brand accetta di agire con maggiore trasparenza effettiva. Lo stesso cittadino- consumatore deve imparare a chiarire a sé stesso quale sia il reale contenuto dello scambio sociale che è pronto ad accettare con il brand, il valore di questo scambio, il suo prezzo effettivo.
Un ragionamento che va al di là della web data privacy: riguarda il mondo dei costi impliciti (digital o meno), riguarda la trasparenza reale su quanto è offerto, per qualità, quantità, valore. [1]
Cambridge Analytica ha chiuso, ma riaprirà sotto diversa forma. Non ci interessa molto il suo destino, ci interessa quello dei cittadini-consumatori, del Paese e quello delle marche serie e seriamente interessate a servire le comunità nelle quali vivono.
[1] Tutti conosciamo le condizioni capestro che flagghiamo senza leggere, tutti ascoltiamo le news sulle aziende che riducono le quantità nelle confezioni (o gli archi temporali dei servizi prestati) per aumentare i prezzi, senza ritoccare i prezzi nominali, tutti vediamo ancora oggi tante offerte poco chiare. I risultati delle ricerche di mercato sono piene di clienti che vorrebbero semplicemente qualcosa di più onesto ed affidabile, dalle stesse marche. Le ricerche ed il marketing devono servire a migliorare la relazione fra domanda ed offerta, non a scovare il modo di ingannare la domanda. Un ruolo fallimentare e destinato alla marginalizzazione sociale nel medio periodo.
L’articolo è stato pubblicato in origine sul sito www.eumetramr.com