Che prospettive ci sono per chi sta iniziando una carriera come art director? E che bagaglio serve per non soccombere alle tecnologie di AI generativa e volgerle a proprio favore? Alessandro Stenco, autore del libro “Il mestiere dell’art director”, ci ha raccontato le sfide presenti e future della professione creativa
Secondo la definizione che ne dà la Treccani, l’art director è “la persona responsabile del settore grafico di un’agenzia pubblicitaria”. Corretto in estrema sintesi, ma di fatto il mestiere dell’art director è molto più ampio, si estende a numerosi ambiti – dalla pubblicità all’editoria, dal design di prodotto alla moda passando per il cinema – ed è intrinsecamente connesso alla generazione, trasmissione e decodifica delle idee. Nel nostro settore, al servizio del marketing.
Lo spiega Alessandro Stenco, art director da 20 anni sul mercato della comunicazione, nel libro “Il mestiere dell’art director” pubblicato recentemente da Editrice Bibliografica.
Pensato per chi si vuole avvicinare a questa professione e provare a capire dove la scelta di un corso di studi potrebbe condurlo, il libro racconta in modo agile in cosa consiste. Nelle sue pagine si racconta il bello del mestiere, ovvero cosa c’è dietro le migliori campagne e progetti di design e come da dati, da un insight ben scritto, da un problema di business possa nascere un’idea creativa capace di emozionare, modificare comportamenti e resistere allo scorrere degli anni. Ma nemmeno nasconde ai neofiti le criticità, tra le quali l’estrema competitività del settore e un work life balance da difendere con le unghie e i denti.
E se qualcuno lo pensasse, no: l’AI generativa non è un problema, non toglierà il lavoro agli art director. Anzi, sta offrendo loro un grande aiuto, permettendogli di concentrarsi ancora di più sulle idee.
Per mettere a fuoco le competenze e le sfide del mestiere dell’art director abbiamo intervistato Alessandro Stenco.
Posto che l’AI non manderà a casa gli art director, che impatto ha avuto sul vostro lavoro?
«L’AI deve essere usata come co-pilota. Ricorrendo a una metafora, è come il pilota automatico su un aereo di linea: i piloti non tengono per tutta la durata di un volo intercontinentale la mano sulla cloche, ma intervengono nei momenti importanti del volo, la partenza e l’atterraggio. Così l’art director è importante nei momenti dell’ideazione e della chiusura del progetto. Se nel mezzo c’è l’ausilio di una macchina, ben venga. Delle criticità potrebbero esserci riguardo al tema controverso dei diritti, che però non sussiste finché usiamo l’AI nella produzione dei materiali di presentazione e nella fase di ideazione, non nel progetto finito. Ho sempre pensato che le ore, i giorni, spesi a produrre layout cesellati in modo meticoloso fossero giorni tolti alle idee. Se questi giorni l’AI ce li ridà a favore delle idee e se il comparto saprà capitalizzare questa tecnologia, bingo».
Oltre a senso estetico e dono della sintesi, dati e solidi insight possono dare ottimi spunti per campagne efficaci. Quali sono i pro e i contro per un art director della creatività data driven?
«Qualche anno fa uomini di marketing come Marc Pritchard di P&G e Keith Weed di Unilever hanno lanciato un warning a Meta e X dicendo alle piattaforme che le aziende non avrebbero messo la loro pubblicità su siti spazzatura e che bisognava innalzare la qualità della creatività. Hanno detto che i dati da soli non bastano. Se ci arriva l’assist proprio da loro, da questi capitani d’industria, da persone del marketing che vivono su fogli excel, è un grande aiuto: non lo hanno detto per il gusto del bello, ma perché vedono il potenziale della creatività, a volte di più delle persone delle stesse agenzie. Certo i dati sono il punto di partenza e aiutano a guidare il processo creativo, è sempre stato così, anche prima della trasformazione digitale delle imprese, grazie alle ricerche di mercato: abbiamo bisogno di informazioni e l’idea creativa è frutto dell’elaborazione di una serie di dati».
Nella sfilata di campagne eccellenti non hai indicato l’anno di uscita. Come mai? Forse perché le buone idee non scadono mai?
«È vero, perché le idee sono la forza di quelle campagne e non fai caso alla data di uscita. Se guardi lo spot dell’Independent ‘Don’t read’ (uscito nel 1999, ndr) è solo la grana della pellicola a dirci che è datato, ma il significato è ancora attualissimo».
Come hai iniziato e chi ritieni siano stati i tuoi maestri, lontani e vicini?
«Mi sono sempre piaciute la grafica e la fotografia, mi è sembrato naturale andare in questa direzione. Considero miei maestri un po’ tutte le persone con cui ho avuto occasione di lavorare. Nel bene e nel male, si impara anche da esperienze non positive. Ma se dovessi scegliere una persona in particolare direi Roberta Sollazzi, che mi è venuta a prendere all’ascensore il mio primo giorno in Saatchi & Saatchi. Una copy molto talentuosa, una delle più brave d’Italia e che adesso ha cambiato settore, scegliendo la medicina».
E cosa consiglieresti a chi vorrebbe fare l’art director, al di là delle tre opzioni dell’auto-formazione, andare a bottega e frequentare le solite costose scuole? Hai un consiglio per le partite IVA?
«È capitato che agenzie più piccole mi abbiano dato più possibilità di altre più grandi. Bisognerebbe valutare con grande attenzione, strategicamente e con distacco con chi lavorare, scegliendo chi ti offre più opportunità, cercando di capire che tipo di percorso riuscirai a fare all’interno di una struttura. Evitando la fascinazione della grande firma tout court. E considerando anche uno step back, se ti permette di fare cose più rilevanti.
Nutrire la curiosità è poi un aspetto importante. Se l’AI ci ha preso come modello, anche l’AI può essere un modello per noi, acquisendo dati e informazioni. Andare a vedere una mostra, viaggiare, leggere, fare attività anche non pertinenti il nostro lavoro sono tutte cose che ci permettono di acquisire informazioni nuove o riattivare quelle in un angolo del cervello.
Essendo un consulente che lavora in modo indipendente, per me è importante mantenersi aggiornati, stare al passo con i tempi e con quel che succede nel mondo in generale. Il nostro lavoro è fatto anche di ‘topicality’, ovvero la capacità di collegarsi agli oggetti di conversazione attuali e trovare il momento giusto per dire le cose. Quando ho iniziato io, in un’altra epoca, i copy leggevano i quotidiani ogni giorno. Non perché fossero sfaccendati, ma perché faceva parte del loro lavoro sapere quello che succedeva nel mondo. Ora queste cose avvengono online, ma la loro importanza non è cambiata».
A chi è già nel settore da anni cosa consigli di fare per tenersi al passo?
«Tutto quel che abbiamo detto vale a 20 come a 60 anni. Permettimi una metafora da appassionato di tennis, ispirata ai tre dominatori di oggi: Federer, Nadal e Djokovic. Sono tutti e tre sportivi che non hanno mai smesso di imparare, che ogni anno hanno cercato di implementare un nuovo colpo. “Never stop learning” è il loro insegnamento che possiamo trasporre anche nel nostro lavoro».
Un punto critico che hai toccato nel libro è la scarsa diversità del settore: ci sono poche art director donne tra i professionisti considerati punti di riferimento, anche nella sfilata di ‘mentori’ presentati. Perché secondo te?
«Un esempio chiaro del soffitto di cristallo che riguarda anche il settore della pubblicità. Ma molte cose stanno cambiando anche all’interno delle agenzie. All’ultima riunione eravamo 2 soli uomini e 10 donne, tutte a livello decisionale. Una volta era l’opposto. Alla luce di quanto emerso dal ‘me too della comunicazione’ e degli ultimi episodi di cronaca (il femminicidio di Giulia Cecchettin, ndr), anche a livello di linguaggio non c’è più timore a parlare con chiarezza di patriarcato. Molte agenzie e aziende si stanno adoperando per migliorare quel clima da caserma che una volta era la norma, all’interno di un sistema fortemente piramidale, con gerarchie inscalfibili. È un passato che per fortuna oggi ci stiamo lasciando alle spalle, anche perché è un modello non sostenibile. Per fare creatività bene, bisogna lavorare in un ambiente sereno. Come docente e pensando alle mie figlie, riguardo a questo ho fiducia nelle nuove generazioni».
Il tuo augurio per la prossima generazione di art director?
«Di leggere Isaac Asimov e conoscere le leggi della robotica, dato che ci si presenta un futuro di uomo vs macchina. ‘Io robot’ è il libro di un visionario che aveva prefigurato quello che sta succedendo adesso. E di imparare sempre e misurarsi con qualcosa che non si è mai fatto. Come per me, che mi sono sempre occupato di art direction, scrivere un libro».
F.B.