David Droga è la rockstar della pubblicità, quando parla a una conferenza non c’è una sola sedia libera. Pochi mesi fa la ’sua’ Droga5 è stata comprata da Accenture Interactive e, nonostante abbia descritto il settore come “in contrazione”, allo stesso tempo crede fermamente nella creatività. Nils Adriaans, professionista indipendente dell’industria creativa internazionale, lo ha intervistato chiedendogli la sua visione sul futuro della pubblicità e della comunicazione tra brand e consumatori
Invece di farsi acquisire da un pesce grosso, Droga5 senza dubbio avrebbe potuto comprare un pesce piccolo con le stesse competenze di Accenture Interactive e rimanere indipendente. Perché non l’hai fatto?
«E’ vero che ho sempre detto di essere orgoglioso della nostra indipendenza. Ma è anche vero che, guardando alla mia carriera, mi piace progredire, spesso a un’alta velocità, e non prendo sempre la decisione più ovvia. Detto ciò, la verità è che non ci siamo mai preoccupati se rimanere indipendenti o meno, o di essere acquisiti, non ci siamo mai messi in vetrina. Le conversazioni con Accenture Interactive andavano avanti da 3 anni, inizialmente in modo informale perché avevamo un cliente in comune e nel tempo queste conversazioni si sono fatte sempre più serie. Ma ci sono stati periodi in cui non parlavamo affatto.
Inoltre non c’era una necessità impellente di farlo: eravamo già un’agenzia interactive con molti programmatori e data scientist, all’interno di una struttura in ottima salute con 600 dipendenti. Abbiamo detto “si” perché ci sparerà dritti nel futuro. Se devi fare tutto da solo ci metti molto di più, forse troppo, in un percorso molto lungo. Ora siamo una experience agency che opera su tutti i touch point per i brand, ai più alti livelli. In più, non mi fa paura collaborare. In breve, l’opportunità era troppo grossa per farsela scappare».
E com’è, da pubblicitario, lavorare con i consulenti?
«Naturalmente abbiamo appena iniziato. Per la maggior parte, la giornata si svolge come prima. Certamente da quando l’accordo è stato ufficializzato e ci siamo lasciati alle spalle il circo mediatico, ho di nuovo più tempo per i clienti. Ma principalmente è una cosa che abbiamo sempre cercato di fare sin dall’inizio: facciamo insieme briefing che vanno molto oltre i fuochi d’artificio a cui spesso si riduce la pubblicità, e durate questi processi parliamo molto.
Un gruppo di loro data scientist lavora già presso di noi, ci sono incontri giornalieri per imparare gli uni a capire il linguaggio degli altri, Brian Whipple, il CEO di Accenture Interactive, e io ci scambiamo letteralmente i nostri appunti ogni settimana. Mettiamola in questo modo: ho avuto conversazioni più interessanti negli ultimi mesi che negli ultimi 5 anni.
Il nostro più grande sogno prima dell’accordo con Accenture Interactive è sempre stato quello di fare la differenza. Ma con le nostre storie, grandi e strategiche, toccavamo solo una piccola parte del reale processo di decision making delle aziende. Non avevamo la dimensione e il peso per influenzarle realmente. Ora la narrazione è diventata parte di tutto quello che fanno i nostri clienti. Allo stesso modo, abbiamo imparato qual è il nostro posto. Con questo, intendo che la pubblicità è ‘solo’ una parte della crescita di un’azienda, ma la creatività – che è molto più ampia – è fortemente apprezzata. La nostra ambizione è diffondere quella magia, quella creatività su tutti i touch point con i consumatori per attrarre la loro attenzione in modo positivo».
Droga5 è famosa per aver creato lavori intelligenti pensati per suscitare emozioni scompigliando le carte. Che tipo di lavori ci possiamo aspettare da Droga5 ora che è parte di Accenture Interactive?
«Ne costruiremo di più. Come saranno esattamente, non lo so ancora. Ma Accenture Interactive dispone di più programmatori di qualunque altra holding del settore della comunicazione. Dovete pensare a campagne con un imponente apparato di comunicazione digitale alle loro spalle. O a un sistema completo di customer service più equipaggiato dal punto di vista creativo. Il vantaggio della tecnologia e dei dati è che puoi offrire ai clienti più certezze di un auspicabile “la campagna probabilmente andrà bene”. Sai che riuscirai a raggiungere i clienti con un insight rilevante. Questo ti permette di targetizzare di più la creatività, rendendola in fin dei conti più libera. Così speriamo, verrà sprecata meno creatività. Cedendo Droga5, sono comunque particolarmente contento della nostra buona annata: per il nostro lavoro per Game of Thrones, l’hype social su IHOb e per il successo di ‘The Truth is Worth It’ per il New York Times a Cannes. Abbiamo lasciato mentre eravamo al massimo».
A Cannes hai parlato, durante il talk insieme a Brian Whipple, di un “settore in contrazione”. La testata Campaign ha parlato invece di una nuova età dell’oro per il mondo della pubblicità con tutta questa domanda di contenuti per tutti i canali possibili. Che ne pensi?
«Penso che abbiamo ragione entrambi. Io parlavo della pubblicità di massa come la conoscevamo una volta: con film e campagne bellissime in tv, sui giornali o sui siti più famosi. Che questa sia in declino è un fatto. Allo stesso tempo, in pubblicità vengono spesi più soldi che mai, nei contenuti sui social media ma anche su Google, Facebook e così via. Oggi tutti sono coinvolti nella pubblicità e improvvisamente tutti vogliono la creatività per afferrare l’attenzione ondivaga e irraggiungibile dei consumatori.
Per rispondere più direttamente alla domanda: quel che penso io, è che abbiamo realizzato come la creatività sia al centro di tutto ciò. Guardiamo agli incontri di Cannes. Quali sono stati i più popolari? Quelli con lavori inaspettati, sugli insight e sull’impatto. Dobbiamo abbracciare i Google di questo mondo, che possono avere un enorme impatto sul modo in cui comunichiamo oggi, ma non faranno la differenza nel connetterci con i consumatori. E’ il lavoro in quanto tale che fa la differenza».
Senza tergiversare: com’è essere la star del mondo della pubblicità internazionale? Quando Droga parla a Cannes, c’è una fila infinita per entrare in sala.
«Non ho mai inseguito un titolo o la fama, o i soldi. Apprezzo moltissimo le lodi ma come creativo mi sono sempre focalizzato sul lavoro e sulle persone con le quali lavoro. Mi sono sempre sforzato di raggiungere i livelli più alti. Sono inoltre sempre di fretta, che qualche volta può essere un difetto. Ma in generale mi sento libero di essere creativo; non mi sento costretto da nessuno gioco politico e nemmeno sono stato ostaggio delle banche, con le quali devi sempre negoziare quando possiedi un’azienda. Mi sento a mio agio col pensiero che siamo il cuore del settore, we are the ones. C’è tanta pressione in questo, e fede nelle nostre capacità, ma mi piace essere all’altezza e anche superare gli obiettivi. In altre parole, non ho mai tolto il piede dall’acceleratore. Mi rende felice. Sono competitivo per natura, con tutto. Ma quando i riflettori si spengono, non mi metto a contare o a lucidare i miei trofei, ma a pensare nuove, affascinanti soluzioni creative».
Sei di estrazione copywriter. Scrivi ancora qualcosa?
«Oh Dio, sono 20 anni che non lavoro più su un brief. Fortunatamente sono nella situazione di avere sempre intorno degli ottimi creativi. Mi piace pensare di essere un buono scrittore. Ma ho realizzato sin da giovane che ero un creativo piuttosto egoista, non ero un giocatore di squadra, dovevo andare per la mia strada. Mi son scoperto essere un direttore creativo migliore, che faceva in modo di radunare i migliori copywriter e altri creativi intorno a sé. Conosco bene cosa funziona emotivamente, quello che penetra nell’animo delle persone. Mi piace quando la pubblicità scatena un impulso o anche uno shock. Allo stesso modo mi piace semplificare, che aiuta sempre a fare un buon lavoro. Ci sono molte cose che distraggono».
Come hai visto cambiare i brand nel corso degli anni?
«I brand evolvono seguendo i cambiamenti socio-culturali e politici-economici, come hanno sempre fatto, per mantenere un legame con il consumatore. Questo significa che adesso devono avere una ragion d’essere chiara, che sia anche socialmente accettata. Non vuol dire che debba essere necessariamente qualcosa che salverà il mondo immediatamente e definitivamente. Tuttavia i brand riflettono il mondo reale e i consumatori sempre di più chiedono un comportamento responsabile da parte loro. Così, da brand, non puoi fare a meno di pensarci e dovrai avere un’opinione quando i consumatori ti chiederanno da che parte stai. Sostengo tutto ciò, l’ho sempre sostenuto. Ammiro i brand che si pronunciano socialmente o politicamente. Sembra essere diventato di moda adesso e i brand dovrebbero fare attenzione a non saltare sul carro; devono assolutamente riflettere sulla loro posizione. Ma sono felice di tutto questo, sia io che te siamo anche consumatori e abitanti di questo pianeta. Stimolo i brand a fare la cosa giusta… sono felice di dare una mano».
Come pubblicitario di successo – nel senso che per mezzo dei tuoi clienti hai fatto in modo che le persone comprassero un sacco di prodotti e servizi – ti senti responsabile del consumismo estremo della società in cui viviamo?
«Assolutamente si, ma non mi sento colpevole. Per quel che mi riguarda, non si tratta di fingere di essere buono mentre invece non lo sono. Preferisco lavorare con brand che hanno una ragion d’essere più alta, ma non sono Madre Teresa. Vendo anche pizza e vestiti, mi piace quello che faccio, ma penso sia molto importante che i brand siano consapevoli della loro responsabilità sociale, specialmente ora che la Terra ha bisogno del nostro aiuto. Sarebbe più difficile se avessi dovuto vendere prodotti che preferirei non dare ai miei figli, come bevande con tonnellate di zucchero. Come leader non voglio essere diverso rispetto all’essere un padre, sarebbe sbagliato. Detto questo, a due ore da New York abbiamo un ranch dove in famiglia trascorriamo più tempo possibile. Cerco con impegno di trasmettere ai miei figli l’amore per la natura».
I tuoi figli sono interessati a quello che fai?
«Il più vecchio fa scuola di cinema alla University of Southern California a Los Angeles. E anche gli altri 3 sono creativi. Il più delle volte c’è un vero caos a casa, mettiamola così. Sono interessati a quello che faccio, nel modo in cui dei teenager possono conoscere quel che fa il loro papà. Onestamente, sono grato di questo. E no, non si sono tutto d’un tratto interessati a lavorare in una sigla di consulenza. A meno che questa non li paghi un sacco!» (risate).
Per chiudere, John Mescall, Global Executive Creative Director di McCann Worldgroup, e Nick Law, fino a poco fa boss creativo di Publicis Groupe e ora VP Marcom Integration in Apple, sono volti familiari della pubblicità e come te sono australiani. Com’è che riuscite così bene in questo settore?
«Siamo aperti al mondo, viaggiamo con facilità, che è quello che devi fare se vuoi raggiungere qualcosa. Non ci sono barriere linguistiche, a volte siamo un po’ grezzi, abbiamo un accento fascinoso (almeno ci piace pensarlo) e possiamo lavorare in un bar ad Amsterdam come in un’agenza di pubblicità a New York. In breve, abbiamo una mentalità zingara (i creativi americani, ad esempio, difficilmente si spostano, forse ce n’è qualcuno ad Amsterdam o Londra, e poi basta) e facciamo il passo più lungo della gamba. Ci piace così, non ci preoccupiamo, cosa che aiuta se sei un creativo in questo settore in continua evoluzione».
Nils Adriaans