Con risultati in crescita da dieci anni, Dove sta dimostrando che business e purpose non sono in conflitto, anzi. Lo spiega in questa intervista Alessandro Manfredi, Global Chief Marketing Officer di Dove, secondo cui anche pensiero creativo e rigore, nel marketing, devono andare di pari passo
a cura di Nils Adriaans
In una congiuntura in cui la fiducia nel marketing latita nei consigli d’amministrazione, stando a quanto sostiene Warc, e il purpose sembra subire un’erosione, Dove è uno dei pochi brand che da 10 anni sta crescendo ininterrottamente, secondo i dati di Kantar.
Lo conferma Alessandro Manfredi, Global Chief Marketing Officer di Dove, Unilever, secondo cui “senza questa crescita continua non avremmo avuto lo stesso tipo di impatto sulla società”.
Come ha riportato la stampa di settore, secondo l’ultimo report Brand Footprint di Kantar solo due dei 50 top brand nel settore del largo consumo hanno ottenuto una crescita consistente nel corso degli ultimi 10 anni: Dove e Vim. Come spiega questo fenomeno?
«I dati di Kantar mostrano che i brand “più forti” nel loro purpose sono cresciuti due volte più velocemente di quelli considerati “nella media” sotto questo aspetto in un intervallo di tempo di 12 anni. Per trovare questo successo e questa crescita, dobbiamo incorporare uno scopo nel modello di business, che è proprio quello che abbiamo fatto con Dove».
Qual è il segreto di Dove?
«Tutto quello che facciamo è radicato nel purpose, anche l’innovazione di prodotto. Seguiamo una strategia attivista che mira a promuovere un cambiamento sistemico a lungo termine nel mondo della bellezza. Ad esempio, recentemente abbiamo scoperto che il 60% delle ragazze sotto i 13 anni gioca ai videogame e una ricerca di Dove pubblicata in collaborazione con Women in Games e il Center for Appearance Research (CAR) ha svelato che il 60% delle ragazze e il 62% delle donne si sentono mal rappresentate nei videogiochi. così abbiamo pensato di fare qualcosa per cambiare questa situazione. Abbiamo dunque collaborato con il team educativo di Unreal Engine di Epic Games, Women in Games e Toya, alleati per una serie di azioni volte ad aumentare la diversità e la rappresentazione dei personaggi femminili e a sostenere le ragazze con l’educazione all’autostima».
Il purpose di Dove è l’auto-accettazione di sé delle donne di ogni etnia, forma fisica e così via. Eppure le donne sono ancora sottovalutate in molti modi e in molti luoghi. A che punto è l’auto-accettazione delle donne nel mondo?
«Nel 2019 abbiamo condotto una ricerca secondo la quale il 70% delle donne non si sente ancora rappresentato nei media e nella pubblicità; la transizione a una definizione più ampia di bellezza non è mai stata così pressante. Abbiamo lanciato #ProjectShowUs, una partnership con GirlGaze e Getty Images volta a infrangere gli stereotipi, che presenta donne e persone non binarie ovunque all’interno di una raccolta di oltre 20.000 immagini che offrono una visione più inclusiva della bellezza che tutti i media e le aziende possono utilizzare. Sulla scia di #ProjectShowUs, abbiamo lanciato una campagna sulla pulizia della pelle presentando l’inclusività del corpo a molti livelli, tra cui una donna, Juliette, che ha subito una mastectomia e le cui foto erano presenti nella nostra collezione».
Lavora in Dove dal 2008, cosa è cambiato da allora?
«Una delle cose di cui sono più orgoglioso è la nostra coerenza con la nostra missione e l’attività intrapresa con continuità nel corso degli anni. Una delle prime campagne dopo Real Beauty, Evolution, lanciata nel 2006, ha affrontato il tema della distorsione digitale sulla stampa, ma ha influenzato fortemente alcune delle nostre campagne più recenti, Reverse Selfie e Detox Your Feed, perché ora la distorsione proviene da un nuovo luogo: i social media. Sappiamo che l’80% delle ragazze under 13 ha applicato un filtro o usato un’app per cambiare il proprio aspetto nelle foto. Se l’hanno fatto, una volta che smettono di editare le proprie foto hanno più possibilità di sviluppare una bassa autostima verso il proprio corpo».
Come si connette Dove alla Gen Z, molto critica nei confronti dei purposeful brand?
«Sappiamo che la Gen Z si preoccupa non solo di ciò che dicono i brand, ma anche di ciò che fanno e di dove investono tempo e risorse. Dove è un brand impegnato ad agire contro i sistemi che perpetuano standard di bellezza razzisti, stereotipati quanto al genere e obsoleti per costruire un senso di fiducia con questa giovane generazione.
Ad esempio, abbiamo affrontato la discriminazione razzista riguardo i capelli come co-fondatori della Crown Coalition. Costituita nel 2018, l’organizzazione lavora con partner che ne condividono il pensiero per far progredire il Crown Act negli Stati Uniti, una legislazione che mira a rendere illegale la discriminazione verso i capelli basata sull’etnia nei luoghi di lavoro e nelle scuole pubbliche».
Bram Westenbrink, Global Head of Brand di Heineken, ha affermato che “il purpose marketing è finito, tutto oggi è di immediata rilevanza”. Qual è la sua opinione?
«Non sono d’accordo. Il purpose non è una moda. È solo un modo migliore di fare business e che può avere un successo fenomenale. Riguardo Dove, abbiamo visto il purpose guidare costantemente la crescita e la trasformazione aziendale per tanti anni. Nel 2021, Dove è cresciuta dell’8%, dopo diversi anni di crescita a cifra singola media e alta, e circa il 60% del fatturato di Unilever proviene da brand di cui i consumatori riconoscono il contributo positivo alla società o al pianeta».
Mi faccia un esempio: cosa serve per rendere efficace il purpose marketing?
«Primo, devi definire uno scopo che sia fortemente connesso a quello che il tuo brand offre: ovvero “Dove e Real Beauty”. Secondo, Intraprendere azioni concrete per manifestare il tuo purpose autenticamente. Terzo, devi far sì che le tue azioni siano amplificate correttamente in modo da poter generare un movimento attorno al tuo purpose, trasformare veramente i comportamenti e le convinzioni nella società e generare la preferenza del consumatore che contribuirà ad alimentare la crescita del brand».
Qual è il valore aggiunto della creatività?
«La creatività è estremamente importante quando si vuole provocare un cambiamento sistemico, perché aiuta a cambiare i comportamenti».
Anche i marketer devono essere creativi, in una qualche misura? Dovete anche avere questa competenza in-house?
«Si, è importante valorizzare e costruire abilità creative nel proprio team o organizzazione. Facciamo tutto il possibile per costruire team composti da persone appassionate e dotate di pensiero creativo. Allo stesso tempo diamo grande valore al rigore, poiché la creatività senza disciplina – nel marketing – è quasi inutile».
Qual è il bello di lavorare con un colosso come Unilever? Qual è invece la difficoltà, rispetto a una start-up sexy?
«Far parte di una grande azienda affermata ti dà la forza per generare un impatto su larga scala sulle tue community e attraverso diversi brand. Sarebbe difficile per una startup diventare il più grande provider di educazione alla fiducia nel proprio corpo del mondo».
Qual è il suo background? E come è diventato un marketer?
«Sono nato a Firenze. Al liceo ho fatto studi umanistici e sono sempre stato appassionato di scienze umane, per questo all’università ho scelto di specializzarmi in marketing e gestione aziendale».
A Cannes l’anno scorso ha detto che si può perdere il sonno per ciò che giornalisti e influencer scrivono su Dove, ogni volta che parte una campagna. Di cosa ha paura?
«In comunicazione è sempre più importante quello che le persone dicono del tuo brand rispetto a quello che il tuo brand dice. In Dove crediamo in ciò che chiamiamo ‘Other’s Say’ vs ‘Brand Say’. Crediamo nel portare voci influenti nel nostro ecosistema di brand dando loro le informazioni di cui hanno bisogno su un certo argomento. Se hanno scelto di supportare il nostro messaggio con le loro parole, questo rende il nostro messaggio più potente».
Qual è la sua impressione del settore negli ultimi anni? Sempre più persone criticano la stravaganza dei Cannes Lions rispetto al (falso?) focus sul fare del bene.
«Vedo una sincera crescente importanza nel “fare del bene”. E questo è incoraggiante. Penso che ci sia un margine di miglioramento per garantire che le campagne premiate abbiano un impatto reale e tangibile e non siano una tantum, create esclusivamente per vincere premi. Ma le cose stanno migliorando».
Infine, perché ama questo lavoro?
«Amo questo lavoro perché mi permette di toccare il cuore delle persone con le nostre creazioni e – soprattutto – perché mi sono impegnato in prima persona per una causa importante»
E qual è il suo brand preferito a titolo personale? E perché?
«Patagonia, perché ha incorporato con successo il suo purpose nel suo modello di business crescendo “grazie” al suo impegno per la sostenibilità e non “nonostante”, che è esattamente il modello che stiamo dimostrando con Dove, anno dopo anno».