Lanciato una decina di giorni fa, lo spot Gillette ‘We Believe: The Best Men Can Be’ ha sollevato un gran polverone e un’ondata imponente di disapprovazione, nonostante le ottime premesse da cui nasceva: rinnovare la tag line storica ‘The best a man can get’ alla luce di un nuovo ideale di uomo contemporaneo e positivo. La generalizzazione, l’approccio paternalista, l’aver dimenticato l’empowerment per il blaming sono alcuni degli errori di una campagna che ha dimenticato i fondamentali, sui quali ogni comunicatore dovrebbe riflettere. L’analisi di Gianluca Ruggiero, ex Global Brand Strategist per JWT e ora Founder e CEO della società di data analytics per il marketing Massive
Nel caso dello spot Gillette si è verificato il detto che a volte dalle più nobili intenzioni nascono disastri. Nel passaggio dalla strategia del brand di voler rendere più attuale e rilevante il proprio modello di uomo alla sua esecuzione, cos’è andato storto?
È ancora presto per tirare le somme in termini di impatto sul business, che poi è quello che veramente conta nel nostro lavoro. Tuttavia, con 1,1M di dislikes ed un dislikes ratio del 63% (nel momento in cui scriviamo, ndr), il commercial Gillette si piazza al tra i primi 30 video più disprezzati su Youtube nella storia. Quello che possiamo dire con certezza è che Gillette ha preso un rischio molto grande, molto più grande di quanto fosse necessario nella sua situazione. Si tratta di un Brand che deve senz’altro cambiare e riposizionarsi, ma stiamo sempre parlando di un PowerBrand globale. Non è un Brand che può giocare alla roulette russa.
Cosa è andato storto?
Gillette è stata per decenni la marca simbolo della mascolinità. La mascolinità finta, vecchia e stereotipata dell’uomo vincente dalla mascella trapezoidale, basata sulla (presunta) attrattività del maschio Alfa, con modella Victoria’s Secret a corredo; una mascolinità artefatta che aveva stancato da tempo anche gli uomini e che è stata colpevolmente mantenuta in vita più a lungo del dovuto. Già nel 2000 Dove introduceva una nuova femminilità con la sua epica “Campaign for a Real Beauty”, un esempio universale di campagna che coniuga successo commerciale e responsabilità sociale, contribuendo fattivamente (e credibilmente) ad una narrazione più sana del femminile. Negli stessi anni, Gillette continuava a giocare su superficiali stereotipi sessuali nella campagna di lancio della sua nuova gamma Venus per il target femminile.
Quindi il riposizionamento di Gillette era doveroso, ed arriva con almeno venti anni di ritardo. Ma nella fretta di recuperare il tempo perduto, hanno fatto gravi errori.
Soffermiamoci un attimo sulla situazione competitiva di Gillette: opera in un mercato altamente indifferenziato, dove l’innovazione gioca un ruolo relativo – la proverbiale “ennesima lametta” è l’esempio di scuola delle innovazioni incrementali futili. La leva prezzo è ciò che guida realmente le vendite, affiancata dalla costosissima leva del display; di conseguenza i margini sono bassi, e la Marca svolge un ruolo relativo in fase di Preference. Nuovi modelli di business subscription-based (Harry’s, The Dollar Shave Club) erodono le fondamenta stesse del mercato. La moda odierna prevede barbe lunghe ed incolte, ed un nuovo ma limitato ruolo per il rasoio. Il mercato è stato allargato alle donne con la gamma Venus, che è oggetto di giuste critiche per via della discutibile “Pink Tax”, di cui i rasoi Gillette sono l’esempio di scuola.
Riassumendo, siamo in presenza di un prodotto near-commodity, in un mercato difficile ed altamente competitivo, con un Brand eccessivamente sbilanciato su una visione maschile vetusta ed a tratti offensiva del femminile. In un mondo dove esiste il movimento #metoo.
È quindi ovvio che il primo passo necessario deve essere una revisione del modello maschile di riferimento; una ridefinizione del Brand Purpose, cioè della visione di Mondo in cui la Marca crede ed alla quale vuole contribuire.
È qui però che il processo strategico si inceppa e cominciano i guai. Perché c’è una sottile ma fondamentale differenza tra una Strategic Idea che dice “crediamo in una versione sana e moderna del maschile”, ed una che dice “crediamo che i maschi debbano cambiare perché così non vanno bene”. E Gillette ha scelto la seconda.
L’esecuzione è il punto debole della campagna: è un problema di linguaggio? O c’è anche dell’altro, tipo il ruolo (evidentemente non riconosciuto dal pubblico) che una marca pretenderebbe di rivestire nella sanzione dei comportamenti degli adulti e nell’educazione delle generazioni future?
Trovo molto ironico il fatto che l’aforisma “Execution is Strategy” sia stato coniato proprio in Procter&Gamble. È difficile dire in quale fase del processo sia avvenuto l’errore. Gillette chiede ai consumatori di cambiare un comportamento sociale, che è come dirgli che si stanno comportando male. Gillette giudica il proprio consumatore, si mette sul piedistallo e punta il dito dicendogli cosa è giusto che faccia. Che è molto diverso da promuovere nel mondo la visione in cui crede.
Poco importa se il messaggio sia giusto o sbagliato; una Marca non può e non deve mai avere un approccio paternalista – per dirla in inglese non può mai essere patronizing e condescending – pena l’alienazione dei consumatori. Questo è un assioma del Brand Management. Le Marche sono aziende la cui missione è la creazione del profitto, e pertanto non sono in condizioni di dare lezioni di vita a nessuno; nessuna azione di CSR o Brandwashing potrà mai eliminare questo fatto. Neanche alle Marche del lusso, che pure per vocazione devono stare sul proverbiale piedistallo, è concesso un approccio patronizing, come dimostra il recente disastro di Dolce & Gabbana.
E neanche le Marche che potenzialmente potrebbero permettersi un simile approccio per coerenza e storia – penso ad esempio a Patagonia – adottano un simile approccio. Quando Patagonia dichiara che i proventi del tax cut di Trump verranno donati ai gruppi ambientalisti, l’azienda fa certamente uno statement forte, ma non punta il dito accusando i Trumpisti di essere la rovina del mondo. Perché sa di non poterselo permettere, fattualmente ed eticamente.
Ma ammettiamo pure che una Marca ed il suo azionista vogliano correre questo rischio. Ammettiamo che il potere della Marca sia di natura antagonista, cioè che essa sia un simbolo di appartenenza ad un gruppo in antitesi ad un altro, e che da questo conflitto essa tragga profitto. Penso ad esempio ad alcune Marche di nicchia che fanno della cultura identitaria il loro punto di forza – nella moda streetwear, ad esempio.
Innanzitutto, questa è una strategia di nicchia e non si adatta ad una Marca generalista come Gillette.
Inoltre in questo caso il gruppo “antagonista” verso il quale la Marca esprime un giudizio negativo è l’intera categoria degli uomini, cioè il 50% della popolazione mondiale. Una strategia di nicchia contro l’80% della loro base clienti.
C’è chi sostiene che questa generalizzazione non esiste, perché lo spot stigmatizza il comportamento solo dei maschi violenti, e pertanto non ha intenzione antagonista verso tutti gli uomini. Certamente qualcuno può interpretarlo così, ma i professionisti della comunicazione hanno l’obbligo di tenere conto di tutte le possibili interpretazioni nello svolgimento del proprio lavoro.
Purtroppo il grave errore strategico è il fatto che lo spot dichiari di voler combattere non già i maschi violenti, ma la cosiddetta “mascolinità tossica”. Questa espressione è ampiamente controversa perché implica che il germe della violenza sia un elemento fondativo della mascolinità. Come se la violenza non appartenesse anche al mondo femminile ed al genere umano in generale, come dimostrano tra gli altri tutti gli studi sul bullying.
Nello spot Gillette dice che è venuta a mancare l’ABC del lavoro del bravo comunicatore: comprendere il pubblico, mettersi dei suoi panni e trovare un modo per convincerlo. L’empowerment delle campagne al femminile – tipo Dove, Always – ha lasciato posto alla critica e alla proposta di un modello di uomo altrettanto stereotipato e non realistico (su Campaign c’è un intervento che parla di ‘progressive man trap’). Quale invece una via corretta per far passare il messaggio?
Innanzitutto qui c’è un gravissimo errore di generalizzazione. Per come è stata eseguita, la campagna punta il dito indiscriminatamente contro un intero gruppo sociale, non contro il comportamento di pochi. Letteralmente, il copy dice “Bullying, sexual harrassment… is this the best a man can get? Some men are already acting the right way, but some is not enough”, implicando che la “Toxic Masculinity” – la controversa espressione che è stata scelta come titolo della campagna – sia il comportamento della maggioranza degli uomini.
Per capire il problema, la narrazione utilizzata da Gillette è la stessa usata dalle destre di tutto il mondo nelle loro narrazioni antagoniste. Immaginiamo la stessa campagna, eseguita esattamente allo stesso modo ma riferendosi agli immigrati: “Furti, stupri, cattiva condotta… tutto qui quello che sanno fare gli immigrati? Qualche immigrato si comporta bene, ma non è abbastanza.”. Implicando quindi che tutti gli immigrati siano cattivi per definizione. Suona familiare?
Spingiamo il concetto ancora oltre ed immaginiamo che si usi lo stesso meccanismo contro gruppi etnici: italiani, ebrei, neri… non ci vuole molto per capire che qualcuno nel gruppo oggetto della comunicazione possa sentirsi offeso da una simile generalizzazione. Un po’ come quando all’estero incontriamo qualcuno che ci dice “Italiano? Mafia, pizza e mandolino!”: la mafia è certamente un fenomeno italiano, ma la generalizzazione ci disturba profondamente.
Il problema è nel bias cognitivo: se non appartengo ad un determinato gruppo, sono meno incline ad empatizzare ed a preoccuparmi cosa può offendere quel gruppo. Non mi sorprende che molte donne simpatizzino con la campagna, ma una Marca ed i professionisti che lavorano per essa non possono permettersi di avere bias cognitivi.
Peraltro, se il mio intento comunicativo è quello di cambiare il comportamento di un gruppo, non è certo demonizzandolo che riuscirò nell’intento. La strategia di Gillette è perdente anche se questa fosse la campagna di una ONLUS e non di un Brand.
Lisa Damour, una psicologa e columnist del NYT che si occupa di pedagogia femminile, lo ha spiegato molto bene in una recente intervista alla CBS a proposito dello spot Gillette: “mascolinità tossica è un argomento molto controverso. Come psicologa, so che quando usi un’espressione di questo tipo è molto difficile cominciare una conversazione costruttiva con la controparte”. Lo scopo della comunicazione è convincere il target ad adottare i comportamenti che vogliamo; cosa avrebbe dovuto quindi fare Gillette per convincere gli uomini “tossici” a cambiare comportamento? Questa è la domanda chiave.
Gillette è una campagna di blaming, ossia una campagna che stigmatizza un comportamento negativo – il che già di per sé è una cosa molto rara in pubblicità. Prendiamo invece l’esempio di Dove, una Marca che ha lavorato con successo al cambiamento dell’idea di femminile. Quella di Dove è una campagna di Empowerment – una campagna che promuove un comportamento positivo. E per farlo, lavora da vent’anni incessantemente sulla rimozione del bias cognitivo che le stesse donne hanno sulla propria femminilità.
Per essere tecnicamente più chiari: tutte le grandi campagne degli ultimi anni che promuovono un comportamento migliore dell’uomo lavorano sul superamento del bias cognitivo da parte del target.
Pensate alla stupenda campagna “Let’s open our world” di Momondo, fatta con il test del DNA di Ancestry.com. O alla recente campagna “Innerdiscounts” di Aeromexico, basata su un concetto simile.
Analogamente, Gillette avrebbe dovuto fare una campagna focalizzandosi esclusivamente su ciò che essa ritiene essere un comportamento maschile positivo, non “tossico” – il contrario dello stereotipo “Boys will be boys” stigmatizzato nel video.
Come Dove, avrebbe potuto mostrare il valore di una mascolinità sensibile, quella che non ha paura di piangere, di mostrare sentimenti, di essere empatica ed aperta al mondo, che usa la sua energia per aiutare. Volendo usare un approccio più estremo sul bias cognitivo, Gillette avrebbe potuto prendere un gruppo di maschi “tossici” e metterlo in condizioni di dover operare delle scelte etiche di fronte a situazioni limite, mostrando così che anche gli uomini più maschilisti possono tirare fuori il meglio di sé quando la realtà lo richiede.
E’ il tipico approccio candid camera che ha fatto la fortuna di Heineken a Cannes per anni, e che ad esempio è alla base dell’incredibile e sconvolgente docufilm “Sacrifice” sul tema dell’odio razziale, prodotto dall’illusionista Derren Brown per Netflix.
Per chiarire meglio questo punto: in questi giorni si parla di immigrazione e siamo tutti sconvolti nel leggere i profili FB di signore ingioiellate e perbene che inneggiano alla morte in mare dei bambini immigrati. Mettete quelle stesse persone di fronte al dramma reale, nel mare in tempesta su una nave della Guardia Costiera, e vedrete che si comporteranno diversamente. Questo perché gli esseri umani sono meglio di quello che sembrano, e per fargli cambiare comportamento bisogna solo ricordarglielo. Dirgli che sono degli esseri spregevoli non gli farà cambiare idea, anzi.
Sembra quasi che il brand abbia voluto uscire con un manifesto sulla scia di Nike, ma l’abbia fatto con troppa fretta senza connettere bene la causa sociale (il #metoo) agli obiettivi di business. Cosa differenzia le due campagne?
Mi ha colpito il riferimento di molti colleghi alla campagna Nike con Colin Kaepernick in difesa dello spot Gillette, perché si tratta di due strategie ed esecuzioni completamente diverse. Non è tanto la mancata connessione tra causa sociale ed obiettivi di business, anzi. Potremmo dire che la campagna di Nike è molto più rischiosa e meno “necessaria” dal punto di vista del business, ed infatti è più genuina e meno opportunistica. Mentre tutti cercano di salire sul carro del #metoo, perché è un carro che molti considerano politicamente vincente, salire sul carro del #blacklivesmatter è un’altra cosa.
Qual è la differenza tra le due campagne è presto detto; la campagna Nike “Dream Crazy” è – come le campagne Dove – una campagna di Empowerment. Il messaggio è: “se credi in qualcosa, vai fino in fondo, anche se significa sacrificare tutto ciò che hai”. Non è una campagna contro Trump, è una campagna a supporto di una visione del mondo, una celebrazione dell’infinito potenziale umano, un inno alla vita. E Colin Kaepernick è oggi in America una delle massime rappresentazioni viventi di quella visione, un giocatore professionista della NFL che ha buttato alle ortiche un’intera carriera per ciò in cui crede; un vero eroe.
Peraltro, le due campagne sono molto diverse anche in termini di accettazione da parte del pubblico; la campagna Nike ha un dislike ratio dell’11,6%, contro il 62% di quella Gillette. L’unica cosa che Gillette e Nike hanno in comune è il loro risultato politico, e cioè che “fanno arrabbiare i Trumpisti”.
Il fatto che gli addetti ai lavori accomunino le due campagne è a mio avviso un grave segnale della perdita di competenze nel settore, perché vuol dire che noi professionisti della comunicazione cadiamo nel bias cognitivo della polarizzazione politica come tutti gli altri.
Proprio noi, che dovremmo capirne e dominarne le dinamiche. Le due campagne sono molto diverse: una è di empowerment, l’altra è di blaming. La prima vince, la seconda no; e per rimanere in tema politico visto che lo fanno i miei colleghi, questo è proprio il motivo per cui le destre vincono in tutto il mondo. Trump dice “Make America Great Again”, ed i Brexiteers dicono “Take back control”, mentre le sinistre di tutto il mondo dicono “se quelli vanno al governo è un disastro”.
La differenza è tutta qui; e consiglio a questo proposito di vedere il bellissimo film “Brexit” appena prodotto da HBO, con Benedict Cumberbatch nei panni di Dominique Cummings, lo stratega dietro alla campagna “Leave”. E’ un film che dovrebbe essere parte del curriculum di studi di chiunque faccia strategia di comunicazione, insieme a Joseph Campbell ed ai trattati di semiotica di Umberto Eco.
Posti tutti i difetti di questa campagna, in questi giorni abbiamo anche visto delle ricerche (Ace Metrix, Real Eyes) che invece la promuovono. Nei loro campioni non si sarebbe riscontrata tutta questa polarizzazione che emerge sui social. Del resto anche Nike era stata aggredita ma la campagna è ritenuta un successo. Non è che finiamo per dare a Gillette più colpe di quelle che ha, proprio a causa dell’estremismo amplificato dal mezzo social? Anche questo può essere un bias culturale, come lo è per una donna apprezzare questa campagna a pelle.
Nel settore dei Big Data e dell’Intelligenza Artificiale applicata al Marketing, questo è un tema che mi è molto caro. Aggiungo alle fonti che lei ha citato una ricerca di MorningStar, ed un’altra di Crimson Hexagon, che giungono alle stesse conclusioni.
Ora, se andiamo a vedere i dati nel dettaglio – che è quello che un Data Analyst serio deve fare – le conclusioni espresse negli articoli che circolano sono quanto meno affrettate, se non discutibili. Come dice il mio amico e collega Mark Truss, Global Director of Brand Intelligence in Wunderman Thompson, “Torture enough your data, and they’ll tell you what you want”.
Innanzitutto tutte queste ricerche hanno problemi metodologici di validità statistica. Sono ricerche fatte in due giorni per approfittare della macchina mediatica messa in moto dal caso Gillette. Gli USA sono un paese di 330 milioni di abitanti e, senza voler scomodare Colin Woodard e la sua teoria delle 11 Nazioni Americane, un campione di 2.000 persone su SurveyMonkey non è rappresentativo della diversità di vedute e stili della popolazione americana. Un newyorchese che per qualche strano caso si ritrovi a fare la spesa in un Walmart di Chattanooga nel Tennessee, questo lo sa bene. Ma andiamo avanti.
Uno degli errori tipici degli addetti nel settore è il fatto che non capiscono il Consumer Journey dal punto di vista cognitivo. Una cosa è la Awareness, una cosa è il Liking, un’altra cosa è la Preference ed un’altra cosa ancora è la Action. Per prendere i dati MorningStar, che conosco bene e che ho studiato a dovere, essi mostrano una buona accettazione dello spot da parte del target maschile, seguita da un calo del 5% nella Intention-To-Buy. Quindi, premesso che anche per i dati MorningStar vale la considerazione circa la validità statistica, mi pare che non si possa gridare al successo.
Di Nike abbiamo già parlato, era stata aggredita da qualcuno ma aveva un dislike ratio del 12%, che vuol dire un’approvazione dell’88%. Gillette ha un dislike ratio del 62%, che è stato anche ampiamente edulcorato dalle azioni di crisis management intraprese da P&G sui suoi profili. Se andiamo a vedere lo spaventoso numero di video che sono nati in risposta a Gillette, e che hanno un impatto quanto se non più della campagna, il dislike ratio si avvicina al 90%. E se andiamo a vedere sui Social il sentiment generale attorno alla campagna è incredibilmente negativo.
Questa è un’altra cosa che non capisco di molti professionisti della comunicazione; l’adozione di un doppio standard, che poi è una forma di disonestà intellettuale. Quando sui social parlano bene di una campagna, tutti ad usare i dati per dimostrare il successo della campagna. Basta vedere i video di iscrizione a Cannes dove spesso i dati Social sono usati come prove del successo di campagne che altrimenti nessuno ha visto. Quando invece il riscontro è negativo, tutti si affrettano a dire che i Social tutto sommato non hanno influenza. L’altro giorno un mio ex collega e Chief Strategy Officer di una delle più grandi agenzie di NY, a proposito di Gillette ha dichiarato al New York Times che “l’advertising è una forza debole, e che i dati dimostrano che la gente non cambia comportamento d’acquisto in seguito a campagne pubblicitarie”. Faceva prima a dare direttamente le dimissioni durante l’intervista, perché evidentemente ritiene che il suo lavoro di comunicatore sia inutile, salvo quando va bene. Non è sorprendente quindi che il settore della pubblicità sia in crisi e che i clienti di tutto il mondo stiano guardando altrove per risolvere i loro problemi di comunicazione, a NY come a Milano.
Gianluca Ruggiero è un consulente di marketing con vent’anni di esperienza globale. Dopo aver lavorato in Unilever approda in MRM/McCann, arrivando a ricoprire nel 2011 il ruolo di Chief Operating Officer di McCannWorldGroup Italia. Nel 2014 si trasferisce a New York dove svolge il ruolo di Global Brand Strategist per JWT fino al 2018 (ora Wunderman Thompson), lavorando alle campagne di alcuni tra i più prestigiosi Brand al mondo, tra cui Rolex e Nespresso. È CEO & Founder di Massive, una società di data analytics ad alto contenuto innovativo che usa sistemi proprietari di Intelligenza Artificiale al servizio del Marketing.