L’uscita nel giro di un mese di Agostino Toscana da Saatchi & Saatchi, di Roberto Battaglia da Grey e Vicky Gitto da Y&R ha fatto molto discutere il settore riguardo a dove stiano andando le agenzie. Non ha lasciato indifferente nemmeno Daniele Cima, art director e artista, secondo cui il fenomeno impatta negativamente sulle stesse agenzie, impoverite sotto l’aspetto creativo e più deboli sotto l’aspetto negoziale con i clienti. Che finiranno per tornare al passato e rivolgersi direttamente ai creativi-artisti
di Daniele Cima
Da quasi 20 anni sono fuori dal mondo delle agenzie ma questa serie di uscite importanti mi ha impressionato perché hanno un significato inquietante. Dappertutto gli avvicendamenti sono normali, ma qui stiamo assistendo a una cancellazione di ruolo.
Un tempo le agenzie si chiamavano con il loro nome al quale veniva aggiunta la sigla ‘pubblicità & marketing’. Poi hanno perso il marketing, quindi il media. E’ rimasta loro solo la creatività. E adesso stanno demolendo anche quella privandosi delle prime linee, in prima linea anche nel rapporto con il cliente.
Al di là della convenienza economica, probabilmente succede perché il concetto di creatività è cambiato sotto l’impatto del digitale. Un’evoluzione che però spesso comporta una separazione netta tra componente artistica e tecnica e alimenta il misunderstanding che chi abbia capacità tecniche abbia anche capacità creative.
Vedo i direttori creativi come figure che padroneggiano la capacità più distintiva della creatività: la sintesi. Quella sintesi che oggi, sul digitale, non è più richiesta.
E ancora: se la pubblicità si poteva definire arte applicata, evidente sui mezzi come stampa ed esterna, ora sul web il senso estetico passa in secondo piano e vengono privilegiati gli aspetti tecnici.
Inoltre la pubblicità tradizionale ha sempre cercato di trovare sistemi per rendersi gradita alle persone, usando humour, stile, ironia per entrare nelle case dei consumatori. Online non solo la pubblicità non bussa, ma sfonda la porta con l’ariete. Non si pone il problema dell’accettazione e non ha la necessità di sintesi che avevano gli altri mezzi.
Sicuramente un direttore creativo è una figura costosa, ma azzerare le persone chiave, quelle che hanno ricoperto per tanti anni il loro ruolo sulla base della loro capacità creativa individuale, è una specie di harakiri per le agenzie. Private della leadership e della distintività creativa, le agenzie rischiano di schierare solo esecutori. E a questo punto diventano ricattabili dai clienti.
L’agenzia deve dare stimoli e contenuti, non solo eseguire le indicazioni del cliente o degli altri attori del sistema della comunicazione. Altrimenti rinnega l’essenza del suo stesso lavoro.
Questo processo di spegnimento, in corso da tempo, interessa soprattutto i grandi network che, nati 120 anni fa, oggi sono sovrastrutturati e faticano ad aggiornare logiche obsolete. E’ proprio del processo industriale: qualunque fenomeno artigianale è considerato nocivo e inutile, mentre all’eccellenza si arriva solo sperimentando.
In conclusione, probabilmente questa evoluzione ci sta suggerendo un ritorno al passato. Quando il brand chiamava direttamente l’artista, come faceva Campari con Depero. Sempre Campari lo scorso Natale ha affidato la realizzazione di un’immagine a Ugo Nespolo e ne è uscito un lavoro bellissimo, che utilizza simboli noti ma in modo assolutamente unico. Questo perché l’artista è artigiano, sperimenta, in un processo che richiede tempo e capacità creativa. Un fenomeno in più che ci conferma come, tornando alle agenzie, ‘uno non vale uno’ e che al talento non si può sostituire il metodo.